Massimo Mucchetti, CorrierEconomia, 25/04/2005, 25 aprile 2005
Alberto Beneduce, CorrierEconomia, 25/04/2005 Alberto Beneduce morì a Roma il 26 aprile 1944, 61 anni fa
Alberto Beneduce, CorrierEconomia, 25/04/2005 Alberto Beneduce morì a Roma il 26 aprile 1944, 61 anni fa. Un anniversario così poco rotondo difficilmente offre lo spunto per convegni di studio. Meno che mai se l’illustre scomparso è stato il padre dello Stato imprenditore con la benedizione di Benito Mussolini, impresa fuori moda al tempo del pensiero unico dei capitalismo e del politically correct. Ma chi ama il sale del "politicamente scorretto" può trovare nella biografia di questo matematico, che governò ministeri, banche, finanziarie e imprese, un segno di contraddizione verso l’Italia contemporanea e le sue ipocrisie. Sul piano personale, la parabola di Beneduce mostra con somma evidenza l’ambiguità del rapporto del professionista di rango con il potere. Beneduce è ricordato come il più grande dei grand commis del Novecento: presidente di istituti di credito a medio termine per il finanziamento degli investimenti industriali e delle opere pubbliche come Crediop e Icipu, fondatore dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale che risolse la grave crisi bancaria degli anni Trenta, presidente della Bastogi, la più influente holding del capitalismo privato italiano. Ma in precedenza Beneduce era stato un socialista nazionalista, deputato nel 1919, seguace di Bissolati e di Nitti, del quale fu anche ministro del Lavoro, il primo nella storia d’Italia. E se è vero che, per quasi un decennio, concentrò nelle sue mani un potere economico senza eguali né allora né poi, è altrettanto vero che tutto quel potere non bastò a dargli la libertà di professare il suo credo politico. Aver accettato (o ricercato), un simile compromesso gli costò la ripulsa di quanti, come Nitti, preferirono la via dell’esilio all’acquiescenza alla dittatura. L’alternativa, alla quale si trovò di fronte Beneduce, si ripropone anche oggi, sia pure in un contesto democratico, per i tecnici che accettano (o sollecitano) cariche governative e per gli amministratori indipendenti (o sedicenti tali), che vengono nominati al vertice di banche, assicurazioni e imprese industriali. E spesso solo a posteriori si capisco se la competenza sia stata una ben pagata foglia di fico o se, invece, sia riuscita, concorrendo all’esercizio del potere, a condizionarne gli esiti. Per questo tipo di esami, Beneduce rappresenta un termine di paragone molto alto. Forse troppo. Sul piano della storia economica, infatti, l’eredità di Beneduce è ancora viva. Discutibile, discussa, ma viva. L’Iri è stato fondato nel 1933, trasformato in ente permanente nel 1937 e posto in liquidazione soltanto nel 2000. Alcune sue partecipazioni - Rai, Finmeccanica, Alitalia, la Fintecna con Fincantieri - sono tuttora in portafoglio al ministero dell’Economia. Delle degenerazioni degli ultimi decenni, fino alla crisi della compagnia di bandiera, è stato detto molto, e a ragione. Ma la storia dell’Iri ci dice qualcosa dì nuovo se viene riletta al di là dei peccati. L’Iri fu costituito per salvare Banca Commerciale, Credito Italiano e Banca di Roma, che avevano usato i soldi dei depositanti per assumere rilevantissime partecipazioni nei grandi gruppi industriali. Con il crollo delle Borse e la recessione, il valore delle partecipazioni subì una caduta verticale e l’ombra del fallimento si profilò sul sistema del credito e sulla stessa Banca d’Italia, prestatore di ultima istanza. L’Iri acquistò dalle banche, pagando in 20 anni al tasso del 4%, le società finanziarie nelle quali queste avevano concentrato le loro partecipazioni industriali e con esse si ritrovò padrone pure delle banche medesime che, ahiloro, attraverso quelle società avevano ricomprato gran parte delle proprie azioni. A questo prezzo, le banche furono in grado di sostituire una partita non liquida e incerta con un credito verso l’Iri in teoria esigibile a vista e in realtà rimborsato a lungo termine. Nel 1956, in un rapporto chiesto dall’ex presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, il capo ufficio studi dell’Iri, Pasquale Saraceno, osservò che il prezzo pagato dall’Istituto, pari a 12,3 miliardi di lire (24 mila miliardi di lire ai valori di oggi), era assai superiore al valore, 7,7 miliardi, al quale erano stimate le attività acquisite. Considerati gli aggravi e le plusvalenze emerse negli anni seguenti, Saraceno fissò in 4,8 miliardi la perdita addossata all’Iri. Enrico Cuccia, amministratore delegato di Mediobanca, che era controllata dalle tre banche dell’Iri, non condivise il calcolo. In una lettera all’economista, recentemente rivelata da Giorgio La Malfa, Cuccia osservò che il tasso riconosciuto alle banche era inferiore di un punto alla media di mercato e che la successiva svalutazione della lira aveva ridotto l’onere finanziario nominale di 6,7 miliardi. D’altra parte, le plusvalenze emerse sul portafoglio erano di 2 e non di un miliardo. "L’Iri - concluse Cuccia - ha pagato 5,8 miliardi partite che, in lire 1934, ne valevano almeno 10". E ciò senza attribuire alcun avviamento alle banche delle quali entrava in possesso. Lo Stato, dunque, fece un ottimo affare salvando e al tempo stesso punendo i salvati. Ma l’esperienza dell’Iri non si limitò ai primi 20 anni di successo, non di rado in contrasto con la miopia e l’avidità del capitalismo privato al quale invano aveva cercato di cedere le imprese che gli erano venute dai salvataggi bancari. L’Iri sviluppò i suoi investimenti diventando il più grande datore di lavoro del Paese e dando un esempio che indusse il governo a costituire l’Eni nel 1953 e a nazionalizzare l’industria elettrica nel 1963 affidandola all’Enel e poi ancora a imbarcarsi nelle avventure fallimentari dell’Egam, dell’Efim e della Gepi. Di questo Stato imprenditore, fondato obtorto collo da Beneduce durante il regime fascista e, cresciuto poi a dismisura nell’età repubblicana, gli storici daranno un giudizio globale nel quale non potrà non avere un peso anche il contributo portato alla coesione sociale in una marca di frontiera com’è stata l’Italia nell’Europa della "guerra fredda". Un bilancio economico, invece, è possibile fin d’ora. Ed è un bilancio articolato. Gravato da manifatture pletoriche e servizi come il trasporto aereo incapaci di sostenere la concorrenza internazionale, l’Iri e quel che ne è rimasto hanno richiesto mezzi finanziari che hanno costretto lo Stato a indebitarsi per 36,2 miliardi di euro a fronte di attività residue valutabili oggi in 7,5 miliardi. Eni ed Enel, invece, hanno fatto molto meglio. Talchè il saldo finale, compreso il fardello di Efim e Gepi, è positivo per 40,9 miliardi di euro. E se rettificassimo questo dato, portando la Rai al valore di mercato e applicando alle partecipazioni Eni ed Enel anche solo la metà del premio che Marco Tronchetti Provera pagò per scalare il gruppo Olivetti-Telecom, il vantaggio per lo Stato imprenditore arriverebbe a 68 miliardi. Questo successo dipende dalla nuova missione che il governo Amato diede agli enti economici nel 1992: non più strumenti di politica economica e industriale, ma fonti di profitto per aiutare i conti pubblici. La dimensione del successo è dovuta in larga misura alla posizione dominante che gli ex monopoli del gas e dell’elettricità conservano tuttora. La macchina avviata da Beneduce è dunque andata lontano. Ma il risultato quantitativo non basta a legittimare nostalgie. L’eredità più interessante di questo professionista, che fece il suo patto faustiano con il dittatore, va forse cercata nella riforma del capitalismo che venne innescata dalla fondazione dell’Iri: l’investimento nelle infrastrutture e nell’industria di base moderna, incurante degli Agnelli che non volevano i telefoni o dei Falck che non credevano all’altoforno; la promozione della prima classe manageriale nell’Italia dei padroni del vapore come li chiamava Ernesto Rossi; il disboscamento dei conflitti d’interesse tra banca e impresa. Scriveva Beneduce nel 1932, ed era quasi la premessa della legge bancaria del 1936: "Le aziende vanno finanziate mediante lo sviluppo del mercato delle obbligazioni a medio e lungo termine, attraverso l’opera di accreditate società di investimenti azionari, indipendenti da interessi particolari di gruppo e gestite con rigidità di criteri". Oggi, dopo il Testo unico bancario del 1993 che ricompone ciò che mezzo secolo prima era stato diviso, misuriamo la nuova incidenza degli antichi conflitti negli scandali finanziari (Cirio, Parmalat), come nelle crisi industriali (Fiat, e non solo): momenti di sofferenza che hanno rimesso in discussione il modello della banca universale e il ruolo della Banca d’Italia non solo sui giornali ma anche in Parlamento, dove sono riecheggiati, talvolta, gli argomenti di Beneduce. Certo, l’uomo era figlio del suo tempo e il capitalismo di Stato è diventato nel corso degli anni ragione e alibi delle debolezze di quello privato. La teoria che i soldi andassero affidati alle "mani adatte", come le ha chiamate Fabrizio Barca, ha mostrato il suo limite quando il mercato dei capitali si è internazionalizzato e ha fatto capire a tanti come le "mani adatte" prescelte dallo Stato e dal suo alter ego, Mediobanca, non sempre fossero tali. E tuttavia quella di Beneduce era un’idea forte dell’economia: aver trasformato lo Stato imprenditore in uno Stato cassettista, che, non avendo una politica industriale, non trova il coraggio né di smantellare gli ex monopoli né di trasformarli da campioni domestici in campioni europei, se si fa una parziale eccezione per Eni e Finmeccanica, questo sembra, invece, un pensiero debole. Massimo Mucchetti