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 2005  aprile 28 Giovedì calendario

Mcnamara Robert

• Strange San Francisco (Stati Uniti) 9 giugno 1916, Washington (Stati Uniti) 6 luglio 2009. Politico. «Tra i protagonisti della storia americana della seconda metà del Novecento, [...] è stato segretario alla Difesa Usa dal 1961 al 1968 e presidente della Banca Mondiale dal 68 all’81. Per l’Amministrazione Kennedy ha curato la revisione del sistema di difesa, puntando sul potenziamento delle capacità militari del Paese. Ha giocato un ruolo fondamentale nella formulazione della strategia nucleare degli Stati Uniti, ponendo come primo obiettivo la deterrenza. Nel 1962 è stato membro del ristretto Comitato Esecutivo dei consiglieri di John F. Kennedy nella Crisi dei missili di Cuba. Ha guidato la strategia della guerra in Vietnam, ma, nel 1967, la sua esortazione a sospendere i bombardamenti al Nord fu respinta da Lyndon Johnson. Stravolto da una crisi nervosa, McNamara annunciò le proprie dimissioni. Sfuggì poi a un attentato e fece da protagonista al documentario Premio Oscar Fog of war» (“Corriere della Sera” 28/4/2005) • «[...] il più controverso ministro della Difesa della storia americana, al cui nome è ri masta legata la guerra del Viet nam. Detta “McNamara’s war” perché da lui personalizzata, la guerra, che scatenò ondate di antiamericanismo in tutto il mondo, si concluse nel ’75 con una bruciante sconfitta per l’America e il Vietnam del Sud. Solo vent’anni dopo, nel suo libro di memorie In retrospettiva: la tragedia e la le ùzione del Vietnam, l’ex mini stro se ne dichiarò pentito. La sbagliammo, scrisse, puntando sui bombardamenti nel Vietnam del Nord, e rifiutando ci di ammettere che non potevamo vincerla militarmente. McNamara, analista di ecce zionale carisma e intelligenza, l’enfant prodige dell’industria americana, fu strappato alla casa automobilistica Ford, di cui era a capo, dal presidente John Kennedy, che voleva con sé “i cervelli più brillanti d’America”, e fu nominato ministro della Difesa nel ’61. In due an ni, mandò nel Vietnam del Sud 16 mila soldati, e dopo l’assassinio di Kennedy nel ’63, si allineò al successore Lyndon Johnson, un uomo circondato da falchi della guerra fredda, che gli assegnò il com pito di fermare la penetrazione comunista in Asia (la teoria del domino: “Se casca il Vietnam del Sud, l’intera regione finisce in mano ai rossi”). Architetto del conflitto fino al ’68, quando si dimise, McNamara lo gestì come avrebbe gestito un conflitto con l’Urss, confidando nella strapotenza Usa, e portando il numero del le truppe a 535 mila, sicuro del successo. Ma in una guerra che era in realtà una guerriglia fu la strategia errata. Nel libro di memorie, McNamara asserì di avere incominciato a nutrire dubbi già nel ’66, ma di non essere stato capace di affrontare Johnson, i suoi falchi e i generali al Pentagono. Se Kennedy non fosse morto, aggiunse, avremmo lasciato il Vietnam entro la fine del suo mandato. Alla presidenza della Banca mondiale dal ’68 all’81, McNamara ritrovò le sue radici liberal, dimostrandosi un apostolo degli aiuti al terzo mondo. Ma non riuscì mai a liberarsi dello spettro del Vietnam, che tentò invano di esorcizzare con il silenzio. I critici gli rimproverarono anche il fiasco dell’invasione di Cuba e la corsa agli armamenti atomici. [...]» (Ennio Caretto, “Corriere della Sera” 7/7/2009) • «Per Robert McNamara [...] la guerra era business, da condurre con criteri di ingegneria aziendale, una fabbrica per produrre vittorie come una catena di montaggio sforna automobili o frigoriferi. Fu soltanto dopo avere prodotto in sette anni 58mila morti americani, due milioni di morti vietnamiti e il più umiliante fallimento che gli Stati Uniti d´America avessero conosciuto, che questo californiano troppo brillante, troppo intelligente, troppo preparato per capire di non aver capito niente, si accorse che dentro i diagrammi e l’acciaio c’era una cosa fragile e preziosa chiamata vita umana. Piangeva molto, da vecchio ormai, “Bob” McNamara, scrivendo le proprie memorie umide di pentimento e confessandosi in un film documentario, The Fog of War, la nebbia della guerra, che vinse un Oscar. E se almeno ebbe il merito di ammettere che la guerra nel Sud Est Asiatico, l’ossessione del “domino” comunista da fermare consumando sempre più bombe, e sempre più vite in Vietnam, era stata soltanto un’altra tappa in quella che la storica Barbara Tuchman definiva “la marcia della follia”, ebbe il torto di farlo un po’ troppo tardi. Ma non si può condannare troppo severamente questo “whiz kid”, questo maghetto dell’organizzazione aziendale e del management per avere impiegato troppi anni a capire, non di fronte ad altri vecchi stolidi incapaci ancora oggi di ammettere il proprio errore. Fino dagli anni del liceo a Oakland, dove era nato prendendo dalla mamma il cognome usato come secondo nome, “Strange”, strano, poi a Berkeley e a Harvard, il futuro ministro della Difesa per John Kennedy e poi Lyndon Johnson dal 1961 al ’68, era stato allevato nella certezza di essere uno dei “best and brightest”, dei migliori e più brillanti di quella generazione che, dopo avere sbriciolato l’Asse aveva finalmente ereditato l’America intera e il problema gigantesco di “fermare il comunismo”. Già con l’uniforme di colonnello dell´Esercito, nel 1944, questo dottor “Strange” (il nome aveva colpito Kubrick, che lo aveva usato nel suo Doctor Strangelove per descrivere però un altro genio inquietante dell’epoca, il dottor Edward Teller) era stato chiamato ad aiutare il generalissimo dell’aria, Curtis LeMay a rimettere insieme i pezzi della più complessa macchina che mai l’umanità avesse costruito nella propria storia. Era il bombardiere B29 progettato e costruito con tanta fretta e approssimazione da avere ucciso più equipaggi per incidenti di quanti ne sarebbero stato abbattuti dalla moribonda contraerea giapponese. Senza il genio manageriale e analitico di McNamara, il presidente Truman e i comandi militari mai avrebbero affidato proprio a un B29, chiamato Enola Gay, la prima bomba atomica sganciata su Hiroshima. Era quella stessa prodigiosa abilità di gran risolutore di rompicapo pratici che lo avrebbe portato alla presidenza della Ford auto non ancora cinquantenne e che avrebbe attirato l’attenzione di un altro personaggio convinto di essere, come avrebbe scritto lo storico più brillante della tragedia vietnamita, David Halberstam, parte dei “luminosi figli del mattino” destinati a ridare luce all’America, JFK. Dal Pentagono, che lui riorganizzò secondo schemi e organigrammi che ancora oggi regolano il pachiderma militare americano, McNamara divenne il simbolo, e quindi il parafulmine, di una spedizione che lui considerava come un bilancio societario, una questione di investimenti, costi e ricavi. In una parola, come un “business”, la guerra vissuta come la continuazione dell’industria con altri mezzi. Senza ricordare il monito di tutti i veri condottieri e strateghi, Von Clausewitz soprattutto, secondo i quali su ogni campo di battaglia scende inesorabile quella “Fog of War” dopo il primo assalto. Proprio “La nebbia della guerra” è il titolo del documentario confessione nel quale lo si vede, ormai anziano, ma ancora orgogliosamente affezionato a quella riga diritta e mediana nei capelli che un po’ ricordava il volto di un altro genio ambiguo della sua generazione, Werner Von Braun, piangere e chiedere scusa. Ma fu proprio Robert Strange McNamara uno dei consiglieri di Kennedy che frenarono le fregole dei generali, nel 1963, ansiosi di invadere la Cuba dei missili sovietici notando come il rischio di uno scambio nucleare con l’Urss avrebbe superato ogni profitto di un’invasione. “Il pericolo di una guerra atomica era troppo grande, ed è ancora oggi con noi” disse poco prima di morire e se davvero riuscì a impedire almeno la follia dell’invasione di Cuba, forse il conto dei vivi e dei morti alla fine gli torna. Ammesso che le vite si possano contare e non, come si diceva per le azioni, pesare una per una» (Vittorio Zucconi, “la Repubblica” 7/7/2009) • «[...] Nessun ministro della Difesa, nella storia degli Stati Uniti, ha mai occupato più a lungo di McNamara la guida del Pentagono, e nessuno ha inciso più di lui nel definire le politiche militari di un’epoca dove la vecchia Teoria del Domino doveva piegarsi alle spinte che le guerriglie in ogni angolo del pianeta portavano a rompere gli equilibri tradizionali del potere, sconfiggendo dietro le bandiere della “Lotta di liberazione nazionale” le rigide strategie delle forze armate che l’esperienza massiccia della Seconda guerra mondiale aveva impostato sullo schema dell’“attacco massiccio e travolgente”. Tecnocrate prestato agli eserciti - era stato scelto da Kennedy appena cinque settimane dopo ch’era stato nominato presidente della Ford, primo manager esterno alla famiglia - portò dentro il Pentagono un’autentica rivoluzione, riducendo la forte capacità di condizionamento che gli stati maggiori sapevano esercitare sul potere politico e attivando un conflitto costante, anche se mai esplicito, con i vecchi generali d’ogni arma. E l’unificazione di struttura di comando che impose alle tre armi - esercito, marina, aviazione - stava all’interno di questa sua presa diretta, basata su una cultura da manager più che da uomo della politica. Ma le decisioni che gli toccò assumere andavano ben oltre una struttura aziendale, e comportavano la vita e la morte di migliaia di uomini, anche di interi popoli. Tuttavia, fin che sedette al Pentagono, questa dimensione drammatica non apparve mai evidente, nemmeno nei reportage che il “New York Times” e “Time” gli dedicavano raccontando una guerra senza fine; dopo le sue dimissioni, però - e si volle che fosse stato lo stesso presidente Johnson a chiedergliele - a poco a poco la ricaduta di quel terrificante bilancio di vite umane parve pesargli addosso come uno strappo insopportabile di coscienza, che le pagine della sua autobiografia (In Retrospect) rivelano più tardi tra righe e parole dense di ripensamenti, di amarezze, di confessioni tratte dal fondo dell’animo. In qualche modo, tentò di liberarsi del macigno che quei 50 mila nomi incisi sul marmo di Washington e quel milione di morti perduti nelle giungle del Vietnam gli facevano gravare sulla memoria, non solo quella pubblica; e parve tentare anche di costruirsi un nuovo profilo di oppositore del conflitto in Vietnam. Sono poi le stesse parole amare, la stessa emozionata testimonianza che rese in un film-confessione (The Fog of War) di drammatica intensità e sincerità, un uomo che dimentica la cinepresa che ha di fronte e si misura soltanto con il proprio cuore e la propria coscienza. McNamara è stato l’uomo della guerra, forse anche al di là della sua stessa volontà; e lo è stato in due storie che hanno cambiato il corso degli avvenimenti mondiali. La prima fu la crisi dei missili, nell’ottobre del ’62, quando il mondo fu soltanto a un passo dall’olocausto nucleare; e furono la sua determinazione, e la sua intelligenza tattica, a guidare le mosse di Kennedy sulla scacchiera dove con Krusciov (e con Castro deluso spettatore) si stava giocando la morte del pianeta. La seconda storia fu l’incidente del Golfo del Tonchino, che fece “scalare” la guerra in Indocina dietro la notizia di una presunta aggressione vietnamita a un vascello militare americano: e qui McNamara svolse lo stesso ruolo che più tardi avrebbe avuto Colin Powell nel lancio dell’attacco a Saddam Hussein, facendosi garante di prove che - né nel Tonchino né nei deserti iracheni - erano mai esistite. McNamara chiuse la sua carriera pubblica come presidente della Banca Mondiale. E anche qui portò un nuovo spirito, la ricerca di un nuovo orizzonte possibile, con il lancio della guerra alla povertà. Disse un giorno: “Ormai vediamo il nostro pianeta come una nave spaziale. Ma non dimentichiamoci che un quarto dei passeggeri viaggia in classe di lusso, mentre gli altri tre quarti affollano la stiva; e questo non contribuisce a fare di una nave un luogo felice, nello spazio o altrove”. [...]» (Mimmo Cándito, “La Stampa” 7/7/2009).