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 2005  aprile 28 Giovedì calendario

Misch Rochus

• Oberschlesien (Germania) 29 luglio 1917 • «È l’estremo superstite della guardia personale di Adolf Hitler. L’ultimo soldato tedesco a lasciare il bunker della Cancelleria il 2 maggio 1945, giorno in cui l’Armata Rossa s’impadronì della capitale del Terzo Reich in macerie. L’uomo che ha visto i corpi inerti del Führer e della sua compagna, Eva Braun. L’SS di 27 anni che parlava con Joseph Goebbels, ministro della propaganda, cinque minuti prima che questi si uccidesse. [...] Nel libro Die Katakombe (1975), una delle opere di riferimento sulle ultime ore del nazismo, gli storici e giornalisti Uwe Bahnsen e James P. O’Donnel trattano Misch come “uno dei testimoni oculari di maggior rilievo fra la ‘piccola gente’ che circondava Adolf Hitler, uno dei testimoni-chiave del bunker”. Un superstite presentato dai media del suo Paese come “testimone esclusivo” ma anche come un “cittadino ordinario” il cui destino non ha dato luogo a polemiche. [...] Si dice “cattolico”, afferma di non essere mai stato membro del partito nazista (Nsdap) e di aver vissuto negli ultimi quattro anni “giorno e notte al fianco di Hitler”. Racconta come egli, giovane dell’Alta Slesia, si sia trovato a garantire “con una ventina appena di altri soldati” la protezione del Führer durante tutta la guerra. Misch è nato in piena Grande Guerra, nel 1917. Suo padre, soldato, è morto qualche ora dopo la nascita del secondo figlio. Sua madre, due anni più tardi. Allevato dai nonni, ha frequentato una scuola di disegno. Afferma di non essere stato particolarmente colpito dall’avvento al potere di Adolf Hitler nel 1933. Dice che la politica non gli interessa. “Non sono mai stato nazionalsocialista, e neanche membro della gioventù hitleriana”. Racconta però di aver subìto un primo choc in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936. Arrivato lì per vedere, il giovane Rochus prende posto in prima fila, nei pressi dell’ingresso dello stadio, e qui osserva il Führer per la prima volta. Resta affascinato dalla sua “autorità carismatica” così ben descritta dallo storico britannico Kershaw. “La folla ondeggiava, gridava - rammenta Rochus Misch -. Hitler restava in piedi, attorniato dalla sua guardia. Ho detto a me stesso che quei soldati in uniforme nera erano gente fortunata! Era uno spettacolo che colpiva”. L’anno seguente, Rochus viene richiamato al servizio militare. Gli propongono di entrare nella Verfüngungstruppe, un’unità di polizia militare che offre in seguito la possibilità di assunzione nel servizio pubblico. Nel 1939 le armate tedesche attaccano la Polonia. Il soldato Misch viene ferito. Mentre è convalescente, a Berlino stanno cercando una guardia del corpo, telefonista e fattorino per il Führer. Il comandante della sua compagnia raccomanda il giovane soldato, “perché è una persona seria come la sua famiglia, e non deve più tornare al fronte”. Nell’aprile del 1940 Rochus viene integrato nella guardia personale di Hitler e si installa negli appartamenti della Cancelleria a Berlino. Gli vengono indicati la sua camera, l’ufficio dell’aiutante a cui dovrà consegnare i dispacci, i giornali. Qualche raccomandazione sulla maniera in cui si dovrà comportare nell’antro nazista: mai marciare con gli stivali sopra i tappeti, e mettersi sull’attenti senza muovere neppure un muscolo quando si imbatte nel grande capo. Passano due settimane ed ecco il primo faccia a faccia con Hitler. Il Führer gli porge una lettera. “Era per sua sorella, che viveva a Vienna. Mi chiese da dove venissi io”. Misch prende il treno per la capitale austriaca, dove sale i quattro scalini di una casa tradizionale e suona alla porta. Paula è accogliente; gli serve un tè, gli chiede novità su suo fratello. “Mi fermai solo una mezz’ora, non avevo grandi cose da dire”. Ma che cosa ha visto o sentito di veramente importante in quattro anni di servizio? Ha mai avuto l’impressione di vivere al fianco di un mostro, responsabile della morte di milioni di deportati nei campi di sterminio? “Ho sempre fatto il mio lavoro correttamente. Ho trasmesso i messaggi e le comunicazioni. Ho fatto il mio dovere di soldato, senza riflettere... questo è tutto”. Niente di più? “Hitler non era altro che il mio capo. Era un uomo come tutti gli altri, non un superuomo”. E i campi? “Non se ne parlava. Si sapeva che esistevano, ma quel che vi avveniva non è mai stato oggetto di discussione. Una sola volta, nel 1942 o ‘43, mi è passato fra le mani un dispaccio indicante la presenza di osservatori internazionali che avrebbero dovuto, dopo aver visitato i campi, presentare un rapporto al diplomatico svedese Folke Bernadotte”. Arriva il 1945. La fine del Terzo Reich è prossima. Dalla metà di marzo Hitler, i suoi ultimi fedeli, il suo segretario e la sua guardia pretoriana si interrano in un bunker dall’atmosfera lugubre. Misch si occupa dei telefoni. Ci crede ancora? “Si sperava in un’arma segreta, o in una incrinatura fra gli americani e i sovietici. C’erano più antisovietici fra gli occidentali che fra i nazisti!”. Il 22 aprile, due giorni dopo il suo compleanno, il dittatore ha l’aria di essere finito. “Uscì dal suo ufficio dichiarando brutalmente che la guerra era perduta, che tutti noi potevamo partire, ma che lui sarebbe rimasto lì, a Berlino”. Il 29 il suo testamento politico viene dattiloscritto da Traudl Junge, la sua segretaria, nella stanza in cui lavora Misch. “In momenti come quello, tutto crolla. La vita si ferma. Nulla importa più”. Rocus Misch afferma di aver visto il Führer per l’ultima volta il 30 aprile, poco prima del suicidio. “Erano più o meno le 11. Passò davanti a me, si fermò, mi diede un’occhiata prima di girarsi e di sparire”. Il giovane telefonista riprende il lavoro. Sente in corridoio, a cinque-sei metri, una frase di Hitler rivolta a un gruppo di persone fra cui Goebbels: “Per evitare che mi succeda quel che è capitato a Mussolini, appeso e lapidato, prendere ogni disposizione per cui io sia bruciato dopo la mia morte”. Misch non sente lo sparo. Qualcuno grida in corridoio: “Linge, Linge, credo che sia fatta!”. Heinz Linge è il servitore personale del Führer. “Linge passò davanti a me prima di fermarsi sulla porta di Hitler. Regnava un silenzio di morte. Attendemmo una mezz’ora prima di aprire. Mi avvicinai e vidi Hitler riverso sul divano-letto o sulla poltrona, non ricordo. Eva Braun era raggomitolata e reclinata al fianco del Führer”. I due cadaveri vengono avvolti “in coperte grigie da cui spuntano le scarpe”. Un camerata gli dice: “Misch, devi provvedere tu, il capo deve essere bruciato”. “Rifiutai, avevo paura”, afferma Rochus. Si sentiva sollevato dalla morte del dittatore? “No, era previsto”. Nel piccolo locale dove lavora, osserva Magda Goebbels, la moglie del ministro, vestire i sei bambini prima di avvelenarli. Si imbatte nello stesso Goebbels, che prima del suicidio gli dice: “Non siamo stati capaci di vivere, per lo meno dobbiamo saper morire bene. Lei è congedato”. Rocus Misch lascia il bunker l’indomani. Passa attraverso sotterranei e corridoi della metropolitana, incrocia due chitarristi che suonano musica hawaiana. Viene catturato dalle truppe sovietiche alla stazione di Stettiner. Lo portano fino a Mosca alla prigione della Lubianka. Viene interrogato, percosso. “Volevano sapere tutto, tutto. Erano persuasi che Hitler avesse un sosia! Che assurdità”. Dopo nove anni nei campi di prigionia in Kazakhstan e in Siberia, torna a Berlino nel 1954. Con la pensione dello Stato ai prigionieri di guerra rileva una attività da imbianchino. Sua moglie Gerda, divenuta nel frattempo direttrice di scuola, si iscrive alla Spd (il partito socialdemocratico) e viene eletta consigliere municipale. [...]. Sua figlia, confessa, ha iscritto i bambini a una scuola ebraica di Francoforte e non lo ha più voluto vedere» (Nicolas Bourcier, “La Stampa” 28/4/2005).