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 2005  aprile 26 Martedì calendario

Bolchi Sandro

• Voghera (Pavia) 18 gennaio 1924, Roma 2 agosto 2005. Regista. «[...] padre degli sceneggiati televisivi, l’uomo che ha fatto sognare milioni di italiani con 26 teleromanzi (dal Mulino del Po ai Promessi sposi, dai Miserabili ai Demoni, da Anna Karenina ai Fratelli Karamazov) [...] “[...] Allora la tv era una specie di teatro. Io stesso ero un teatrante. Sergio Pugliese, direttore dei programmi, l’inventore degli sceneggiati Rai, mi chiamò per fare Il mulino del Po, Bacchelli aveva apprezzato la mia regia dell’Enrico IV. Cominciai così la carriera di ’regista dei mattoni’: per i testi russi, molto pesanti [...] Con le vecchie telecamere si lavorava di fantasia. La narrazione era solenne, lenta. Però il pubblico della tv gradiva: all’epoca era timido, balbuziente. Andava poco al cinema e poco a teatro. Ma negli studi tv avevamo la fortuna di avere grandi attori professionisti: 20 giorni a provare come in teatro. Erano preparatissimi [...] Io avevo a disposizione dei monumenti teatrali: Carraro, Randone, Girotti, Brignone, Vallone e più tardi la Massari e Dorelli. [...] Con cento pagine facevamo un’ora e dieci di tv, oggi si fanno 40 minuti. Un teleromanzo mi impegnava per più di un anno. Nelle sceneggiature si cercava di attenuare l’enfasi. Oggi si urla troppo. Io, come Anton Giulio Majano, entravamo nelle case con passo felpato [...] Nessuna rivalità. Anzi, una grande stima. Lui, veniva dal cinema e sapeva fare bene il melò, con ascolti enormi (sui 20 milioni). Se io ero il regista dei ’mattoni’ russi alla Karamazov, lui era lo specialista delle lacrime. Aprì la strada alla tv commossa e commovente [...] io rimpiango le telefonate dell’Indice di gradimento. Non a caso sono sempre stato fedele alla Rai, mai pensato a Mediaset. Berlusconi l’ho conosciuto, ottimi rapporti, ma non ho mai tradito la Rai per la tv commerciale. L’Auditel stravolge il mercato”. [...]» (Leandro Palestini, “la Repubblica” 26/4/2005). «Nessuno ricorda oggi il nome di un regista delle attuali fiction tv, tutti ricorderanno Sandro Bolchi. Ci sarà un motivo, e non è nemmeno una questione di talenti e bravura: laicamente, è il mondo capovolto di oggi rispetto agli albori della tv, la frenesia dell’esibire oggi il prodotto, il glamour dettato solo dagli attori e dal fatto di azzeccare o meno una storia e portarla in tv: sia tratta dalla realtà che dedicata ai personaggi storici, mai più - con rarissime eccezioni - tramite la mediazione della letteratura. Bolchi in tv portava invece i libri, e che libri, fidando nella forza purissima del teatro adattato ai classici dell’Ottocento, sposandola con l’intento pedagogico della prima tv, provando, nella miscela che ne derivava, a giocare anche col cinema e adattare il medesimo alla strepitosa possanza del mezzo tv: quella che incatenava contemporaneamente diciotto milioni e più di telespettatori nella stessa sera, tutti insieme, a farsi ripetere quanto già sapevano, ovvero che quel matrimonio non s’aveva da fare o a trepidare per Lea Massari al binario. La fiction, ovvero l’unico prodotto che tiene alto - a volte altissimo - il livello della tv ha avuto in Bolchi un precursore mondiale: nemmeno teorizzando tanto, nemmeno inventandosi chissà che, semplicemente facendoli, gli sceneggiati a puntate, assecondando quel miracolo che sbocciava tra le mani. È nato tutto lì, Bolchi c’era da protagonista, un regista-massa quanto elitario di princìpi, al servizio dell’esplosione progressiva del piccolo schermo, e non è un caso - forse - che siano sue altre immagini di tono completamente diverso fisse nella retina di milioni di italiani, come certi caroselli (il Cynar di Calindri che oggi al primo sorso verrebbe travolto da uno scooter). Fermo restando che il Karamazov-Pani con sguardo febbrile e sacro fuoco d’attore, i tramagli attorno a Tramaglino o il Dostojevski saccheggiato e girato a milioni di italiani (che, va detto, non avevano altra scelta) restano e resteranno, anche nel buon numero di dvd messi oggi in commercio e ricercati con discreto successo. Un capostipite, un modello originario (“alla Bolchi” si è sempre detto), che da tempo non apprezzava più la tv e da tempo ne era lontano, per forza di cose: a quei tempi, la tv bastava modellarla con genio e conseguenza e prendeva la vita che volevi. Poi il mostro tv si è liberato, ha iniziato a vivere di vita propria e oggi le regole - e anche le fiction - se le modella da solo» (Antonio Dipollina, “la Repubblica” 3/8/2005). «[...] diresse per la tv un gran numero di sceneggiati. Tra questi: Il mulino del Po, I promessi sposi, Le mie prigioni, I fratelli Karamazov, Anna Karenina e La coscienza di Zeno [...] il protagonista di una televisione che oggi appare lontana, criticata, considerata lenta ma ricordata, ormai, quasi con nostalgia. È lui l’autore del teleromanzo culturale, dello sceneggiato televisivo che portava nelle case degli italiani i classici della letteratura. Gran divulgatore delle opere europee, Bolchi era in linea con la filosofia della Rai di allora, intenta a trasformare le famiglie raccolte davanti al televisore in possibili lettori. Nascono così i 26 teleromanzi di Bolchi [...] Punta di diamante della sua produzione è I promessi sposi, preceduto da tre anni di lavorazione (costo record 500 milioni di trentotto anni fa) e da un inconsueto battage pubblicitario tanto che venne interrotto un servizio del telegiornale sulla guerra del Vietnam per annunciare la scelta della protagonista, Paola Pitagora. Grosso di corporatura, bonario dietro le spesse lenti da miope, vorace di libri e di cioccolatini, Bolchi era spesso accusato di essere troppo prono al testo letterario. “Non ci sentivamo veri autori” si scusava “io mi accostavo ai testi con molta deferenza, a volte quasi in ginocchio, se si trattava di opere alte che avevo paura di tradire. La definizione di eroe della pubblica istruzione non mi offende. In fondo l’idea era quella. Svagare e emozionare con le immagini ma anche indurre qualche italiano alla lettura”. In linea con la televisione di allora, che guardava più al teatro che al cinema, Bolchi era stato definito “il regista dei mattoni”. “La narrazione era lenta, solenne. Però il pubblico gradiva. All’epoca” ricordava “il pubblico era timido, balbuziente. Andava poco al cinema e poco a teatro”. Nato a Voghera nel 1924, Bolchi si era laureato in Lettere. Aveva esordito come attore al Teatro Guf di Trieste e poi, trasferito a Bologna, aveva fondato nel 1950, con alcuni amici, uno dei primi teatri stabili d’Italia, “La soffitta”. La moglie Welleda la conobbe sul palcoscenico. Lei era una studentessa che si era presentata per fare la comparsa, un anno dopo la sposò. È del 1956 il suo debutto come regista televisivo con la commedia Frana allo Scalo Nord di Ugo Betti. Ma il suo primo grande successo, nel 1963, è stato Il mulino del Po, con Raf Vallone e Giulia Lazzarini, una sorta di western padano tratto dal romanzo di Riccardo Bacchelli e sceneggiato insieme all’autore. Bolchi lo ha sempre considerato il suo più importante lavoro televisivo. Seguono Demetrio Pianelli e I miserabili. Nel 1967 ha diretto I promessi sposi - in otto puntate, con Nino Castenuovo, Paola Pitagora - rilettura di Manzoni che voleva conciliare il gradimento sia dei filologi che del grande pubblico. L’anno dopo è alla regia di Le mie prigioni e nel 1969 di I fratelli Karamazov, saga familiare, definita dallo stesso autore “un groviglio di rettili che vorrebbero divorarsi l’un l’altro”, con Corrado Pani, Umberto Orsini, Lea Massari. Vengono poi I demoni, Anna Karenina, Bel Ami. Alla fine degli anni Ottanta realizza La coscienza di Zeno e Solo. Intanto l’epoca del grande teleromanzo, il libro raccontato per immagini, è finita. E Bolchi sosteneva che il lavoro del regista è anche un lavoro di gambe e, quando queste faticano a sorreggere, è l’ora di smettere. [...]» (Roberto Rombi, “la Repubblica” 3/8/2005).