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 2005  aprile 25 Lunedì calendario

PIANELLI Orfeo Mantova 10 agosto 1920, Villefranche (Francia) 24 aprile 2005 • «[...] è stato il presidente del più grande Torino dopo il Grande Torino

PIANELLI Orfeo Mantova 10 agosto 1920, Villefranche (Francia) 24 aprile 2005 • «[...] è stato il presidente del più grande Torino dopo il Grande Torino. La sua vicenda granata e non solo è parsa sempre gonfia e forte di una sana logica antica, per il progredire della quale chissà se adesso esistono ancora le rotaie: nel calcio e forse anche nella vita. Bambino di Borgoforte, provincia di Mantova, a sei anni andava a scuola il mattino e imparava il mestiere di fa1egname il pomeriggio. A sedici anni si spostava a Torino, per cercare lavoro contando sull’aiuto di piccoli intrecci famigliari: sapeva fare il contadino e l’elettricista, aveva il diploma ”serale” di capomastro. Senza utili iscritti al partito fascista in famiglia, ingenuo e forte andò dal federale della città e gli chiese cosa doveva fare un ragazzo per lavorare cioè vivere. Gazzotti, il gerarca, commosso o scocciato gli sbatté addosso due decisive righe di raccomandazione. Entrò da elettricista in un’impresa che lavorava per la Fiat, schivò la Germania che voleva importarselo come operaio-schiavo, alla fine della guerra l’impresa era sua, con Domenico Traversa operaio Fiat la ingrandì, nel 1950 nacque la Pianelli e Traversa, che divenne un patchwork di venti aziende operanti per il colosso torinese e non solo. Il socio morì in un incidente, col figlio di lui, Nanni, Pianelli si comprò il Torino. Nel calcio lo stesso iter, sino allo scudetto 1976: fervide ingenuità iniziali dovute alla sua fanciullaggine pallonara, il buonismo anche nei fatti, come il recupero dell’allenatore Fabbri negletto dopo il disastro contro la Corea. E l’esperienza acquisita a pigmentare il buon senso innato, e le intuizioni felici, artistiche, come quella di volere a tutti i costi Meroni, come il sereno rischio di un assegno di 470 milioni al Napoli per Claudio Sala: nel calcio già allora delle cambiali e dei debiti quel pezzo di carta con la firma onorata di Pianelli divenne una specie di totem della serietà finanziaria, dando vita con una lunga serie di girate ad una lunga serie di compravendite. Iter nel calcio durissimo per la morte di Meroni e di Ferrini, nella vita di famiglia lancinante quando gli rapirono il nipotino figlio di sua figlia, e lui lo riebbe alla fine di eventi anche misteriosi. Un segno tremendo sul nonno e sull’imprenditore. Declino psicologico personale, declino del suo impero (era intanto morto precocemente anche Nanni Traversa): lasciò Torino, lasciò il Torino che non gli lasciò neanche un’azione, andò in Francia a cercare acque un po’’ calme. Mai più indossò il vestito marrone a righine bianche, severo e intanto un po’ goffo, che usava come costume scaramantico per le partite del Toro. Smise di giocare furiosamente a carte, lui che nella sede sociale amava tanto spelare quanto farsi spelare, purché ci fosse amicizia. Si concesse alla cura difficile di un cuore a cui sin da quando era bambino aveva chiesto troppo. [...]» (Gian Paolo Ormezzano, ”La Stampa” 25/4/2005). «Nel giorno in cui il Toro rivinse lo scudetto, 27 anni dopo Superga, qualcuno incollò sulla giacca scura di Orfeo Pianelli un enorme tricolore ritagliato con le forbici e, forse, spalmato di coccoina. Era il 1976, e dietro c’era la Juve... Lui fece il giro del campo con quella coccarda che s’intonava benissimo alla sua faccia rotonda e pacioccona, da curato di campagna, dove le gote offrivano due pomelli rossi da marionetta. Erano altri tempi e altri uomini al comando del calcio. Spendevano più che guadagnare, a volte andavano in rovina, ma come vincevano e perdevano loro non vinceva e non perdeva nessuno. [...] Il suo nome resterà nella storia granata accanto a quello di Pulici, Graziani, Pecci, Gigi Radice e il poeta Claudio Sala, Zaccarelli e il giaguaro Castellini, Patrizio Sala e Mozzini, cioè gli olandesi d’Italia, i più moderni calciatori nostrani degli Anni ’70, quando tutti si riempivano la bocca col pressing, ma solo Radice lo sapeva fare davvero, giocando molto meglio di chiunque. Un altro mondo, un’altra Torino. Pianelli era un re dell’indotto Fiat, la sua ”Pianelli & Traversa” era partita come fabbrichetta per diventare una multinazionale. I soldi, Pianelli o li metteva nel Toro o sul tavolo da gioco: in entrambi i luoghi, prima trionfò e poi cadde. La mazzata terribile arrivò nel ’77, pochi mesi dopo lo scudetto, quando gli rapirono l’amato nipote di quattro anni, Giorgio Garbero. Il bambino venne rilasciato, e il pagamento del riscatto influì non poco sui destini del nonno. Uomo profondamente granata, dunque solcato da dolorose ferite e gloriose tragedie, come la morte di Gigi Meroni e quella di Giorgio Ferrini, il suo capitano. Astutissimo con l’aria da bonaccione, Pianelli era molto intelligente anche se non aveva studiato. Memorabili le sue uscite dialettiche, quando per fortuna non si facevano ancora i soldi pubblicando libri sull’ignoranza altrui. ”Non ho il dono dell’ambiguità” rispose a chi lo voleva onnipresente, e dopo un derby da cardiopalmo (a quell’epoca, li vinceva quasi tutti il Toro) proclamò: ”Oggi ho proprio il patè d’animo”. Solo le carte lo appassionavano più del pallone. Come presidente, Pianelli fu competente e generoso, finanziando la costruzione di una delle più belle squadre del dopoguerra. Indimenticabile anche nella sconfitta, perché nessuno ha mai più giocato bene come il Toro che perse lo scudetto del ’77 contro la Juve dei 51 punti. Neanche uno straniero in campo, solo tecnica e sentimento da una parte e dall’altra, per esaltare un calcio così moderno da essere già classico nell’istante del suo nascere. Con un estremo rimpianto, e forse un limite: una squadra del genere doveva durare e vincere molto di più. Pianelli vinse uno scudetto, però unico al mondo con la gente in pellegrinaggio fino a Superga, due Coppe Italia, più tre secondi posti e un’infinita serie di personaggi e storie. Come quella che un giorno raccontò Nereo Rocco, allenatore granata: ”Ero a casa del presidente, mi scappava di andare in bagno. Lì dentro, i rubinetti erano tutti d’oro, oro massiccio. Poi mi siedo sulla tazza, alzo gli occhi e vedo un bel quadro di una donna con il collo lungo”. Solo Orfeo Pianelli poteva appendere un Modigliani proprio lì» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 25/4/2005).«[...] Quel signore con l’abito eternamente marron, le folgorazioni linguistiche (’Non bevo champagne, sono analcolico”) e la faccia da contadino furbo ma non servo, ricco ma non scemo. Pianelli era un seminatore di granatismo, oculato e costante. Ricostruì il sogno, un anno dopo l’altro, senza mai rinnegare il codice genetico del Toro: vivaio, tremendismo, sperimentazione coraggiosa di uomini e schemi. Sapeva di avere un vicino di casa ingombrante, ma anche di poter contare sulla sesta tifoseria d’Italia. Perciò arrivare oltre il sesto posto fu sempre considerato da lui un disonore. Successe di rado. Invece vinse due scudetti: uno nel 1976 con Pulici e un altro, per vent’anni, con la dignità. Il suo Toro non conobbe mai l’onta della B. Altri tempi? No, altra tempra. [...]» (Massimo Gramellini, ”La Stampa” 25/4/2005).