Mattia Feltri, La Stampa 21/4/2005., 21 aprile 2005
«La liberazione 60 anni dopo - Torino» (6), La Stampa 21/4/2005. Il tenente delle SS, Anton Renninger, dettò questo messaggio: «Ordine del comando tedesco
«La liberazione 60 anni dopo - Torino» (6), La Stampa 21/4/2005. Il tenente delle SS, Anton Renninger, dettò questo messaggio: «Ordine del comando tedesco. Dal mio arrivo colà e dalla mia comunicazione se entro due ore od il tempo necessario per mettere in libertà e far giungere a questo comando l’ufficiale italiano e i due sottufficiali tedeschi e tutti gli uomini presi ieri e fatti prigionieri, sani e salvi e senza che manchi nulla, noi incendiamo Cumiana e i paesi vicini e faremo fucilare i ribelli che abbiamo in nostra mano, (otto) più 150 uomini del paese. Se sono italiani buoni capiranno la situazione». Due emissari portarono il dispaccio al capo partigiano Giulio Nicoletta. Le cose stavano così: la mattina del primo aprile 1944 una formazione di Nicoletta era scesa dalla Val Sangone a Cumiana, provincia di Torino, per impadronirsi di un autocarro tedesco colmo di viveri. Ne era derivato uno scontro a fuoco lungo due ore. I partigiani avevano avuto due morti, i nazifascisti uno ma erano stati costretti a ripiegare. Nicoletta era tornato in montagna coi viveri e quindici prigionieri, fra cui un ufficiale italiano e due sottufficiali tedeschi. Le SS allora avevano occupato Cumiana, aspettato le corriere e fatto scendere i pendolari, preso centotrentacinque ostaggi, li avevano rinchiusi nella stalla della scuola agraria senza cibo e acqua, e per dimostrare il loro umore avevano dato fuoco a un mulino e a una casa. La mattina successiva, 2 aprile, il tenente Renninger dettò la sua lettera. Nelle ricostruzioni storiche e nei racconti dei testimoni Giuseppe Durando non compare mai. Era il podestà di Cumiana e in quei giorni non ha lasciato traccia. Probabilmente se ne restò acquattato sperando di non passare troppi guai. I contatti fra le SS e i partigiani li tenne soprattutto il parroco, don Felice Pozzo. Fu lui, assieme al medico del paese, a portare l’ambasciata di Renninger a Nicoletta. La trattativa si dimostrò subito complicata. Una decisione del genere, restituire i prigionieri, toccava collegialmente ai comandanti di banda della zona. Serviva del tempo. Ci furono controproposte, si negoziò sul punto in cui concludere lo scambio di ostaggi. Nel primo pomeriggio del 3 aprile, il parroco e il medico compirono per la quarta volta il tragitto fra Cumiana e Forno di Coazze - dov’erano i partigiani - con una nuova offerta delle SS. Non sapevano che nel frattempo Renninger si era scocciato. Intorno alle 14, cinquantotto ostaggi vennero prelevati dalla stalla. Due ore dopo erano ammassati nel cortile della cascina Riva di Chiaia. Tutti aspettavano il ritorno del parroco e del medico, tranne Renninger. Poco prima del tramonto ordinò che si cominciasse: le vittime vennero condotte a piccoli gruppi dietro la cascina e lì abbattuti con un colpo alla nuca. Furono ammazzati in cinquantuno, tutti civili, fra cui Lorenzo Burdino che l’indomani avrebbe compiuto diciassette anni. La strage lasciò a Cumiana sessantacinque orfani. Non sessantasette, perché due ragazzi vennero uccisi col padre. Sette scamparono all’esecuzione fuggendo o nascondendosi sotto i cadaveri. Vittorio Chiantore ha raccontato: «Quando voltammo l’angolo finalmente vedemmo. C’era un piccolo spiazzo e per terra, qua e là, i trenta compaesani che ci avevano preceduti. In mezzo, in piedi, un po’ barcollante, un maresciallo tedesco con la pistola in mano. Sentii un primo colpo e insieme un rantolo che gorgogliava di sangue. Il primo della fila si afflosciò, il secondo cadde di schianto. Mi volsi per guardare mio fratello perché toccava a lui, ma in quello stesso istante sentii l’esplosione e la morte, o il dolore, o lo stupore, scolpirsi sulla faccia di mio fratello. Cadde anche lui. Girai la testa e attesi il colpo. Il silenzio divenne ancora più forte. Poi una mano mi toccò con durezza sulla spalla. ”Raus!” gridò il tedesco». Non erano trascorsi nemmeno due mesi dalla mattina in cui il federale di Torino, Giuseppe Solaro, era giunto a San Maurizio Canavese per prendersi la sua vendetta. In un attentato partigiano era stata uccisa la segretaria del fascio femminile e ferito il segretario. Solaro fece circondare il paese e prese i primi ostaggi. Alla casa di cura Villa Turina fu prelevato il professor Carlo Angela (babbo di Piero e nonno di Alberto), che da quelle parti godeva di solida fama di antifascista. Gran parte degli abitanti fu obbligata a seguire il corteo funebre della segretaria del fascio. Terminata la sepoltura si passò alla fucilazione. I condannati erano sei: Carlo Savarro, segretario comunale; Guido Berta, proprietario del Caffè della Stazione; Giovanni Zoldan, postino; Pietro Pradotto, maresciallo dell’Aeronautica che si era rifiutato di servire la Rsi; Luigi Pellegrino, venditore di biciclette. Poi c’era Carlo Angela. Dalla casa di cura Villa Turina arrivò un paziente, Carlo di Robilant, ex federale di Torino, che convinse Solaro a risparmiare il professore. Per ragioni confuse ebbero salva la vita anche Pradotto e Pellegrino. Berta, Savarro e Zoldan vennero falciati coi mitra alle 13 in punto. Solaro e i suoi tornarono a Torino cantando «Giovinezza». Il nome di Carlo Angela è inciso sulla stele d’onore nel Giardino dei giusti al museo dell’Olocausto di Gerusalemme. Da ragazzo aveva esercitato la professione medica al seguito dell’esercito belga in Congo. Si era specializzato in neuropsichiatria a Parigi seguendo i corsi di Joseph Babinski, gli stessi seguiti da Siegmund Freud. Era finito a San Maurizio Canavese a causa della sua opposizione al regime. Lì, alla clinica Villa Turina, cominciò dando rifugio a Paolo Treves - figlio del socialista Claudio - in fuga dalle camicie nere. Divenne un’abitudine. Il professor Angela nascose decine di perseguitati politici, di renitenti alla leva, di ebrei, risparmiando loro il plotone d’esecuzione o la deportazione in campo di concentramento. Falsificava le cartelle cliniche, dichiarava ariani gli ebrei, pazzi i sani. Un fascista, Carlo di Robilant, evitò che un altro fascista, Giuseppe Solaro, ponesse fine all’opera di un Giusto fra le Nazioni. La festa della Liberazione è il 25 aprile 1945, ma a Torino i tedeschi furono cacciati il 29. Già da qualche giorno, però, si stava presentando il conto ai fascisti. Il 28 in una relazione inviata al comando della 42esima divisione garibaldina Deo si leggeva: «I due terzi dei prigionieri catturati, dopo regolare processo, sono stati passati per le armi». Il 30 sera il comando del distaccamento arditi «Alvaro» inviò un rapporto al comando della 19esima brigata Gambone: «La mattina del 29 cominciavo le operazioni di polizia. In piazza Castello evitavo il linciaggio di una spia catturata da un volontario della divisione Monferrato che per primo picchiava il fermato, dando prova di scarsa disciplina, in ciò assecondato da una folla inferocita... Altro caso di linciaggio ho evitato il pomeriggio del 30, all’incrocio dei corsi Regio Parco e Palermo, di una donna gravemente indiziata dalla stessa popolazione. Essa era ferocemente picchiata e denudata...». Si era preso troppo alla lettera il proclama scritto da Giovanni Amendola sull’Unità: «I nostri morti devono essere vendicati, tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è questa l’ora di abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento. Pietà l’è morta». La mattina del 28 venne arrestato il federale Giuseppe Solaro, un anno e due mesi dopo i fatti di San Maurizio Canavese. Uno storico equilibrato come Gianni Oliva gli attribuisce «l’organizzazione dell’ultima difesa nelle vie della città, con centinaia di franchi tiratori asserragliati nelle case durante i primi giorni dell’insurrezione». «Il suo atteggiamento sprezzante e la sua durezza sono penetrati a fondo nell’immaginario popolare torinese», aggiunge. La sua esecuzione fu annunciata dalla radio e fissata per il pomeriggio del 30 all’angolo tra corso Vinzaglio e via Cernaia, dove l’anno prima erano stati abbattuti quattro partigiani. Accorse una gran folla. A Solaro venne riservata l’impiccagione, preceduta da una lunga sfilata per le vie di Torino col condannato esibito su un camion. Al primo tentativo il ramo dell’albero si spezzò e Solaro cadde già moribondo. Aveva il collo lungo il doppio del normale. Fu appeso a un altro ramo e impiccato per la seconda e ultima volta. Lo tirarono giù e con la corda del capestro lo legarono al camion per un successivo giro in città. Qualcuno gli mise un mozzicone di sigaretta in bocca. Al ponte Isabella, il cadavere di Solaro fu lanciato nel Po e usato come bersaglio dai cecchini. Venne ripescato il giorno dopo e seppellito. Il podestà di Cumiana, Giuseppe Durando, fu catturato il 2 maggio a Torino e riportato al paese dove lo aspettavano i figli, i genitori e i fratelli dei cinquantuno ammazzati il 3 aprile 1944. Lo accolsero a sberle, calci, pugni, randellate, colpi di zoccolo, di forbice e di coltello. Aveva le mani legate e un cartello al collo su cui erano elencate le colpe. Lo trascinarono sanguinante, senza interrompere il linciaggio, sino a un prato accanto al cimitero e finito con un colpo alla nuca. Anton Renninger ha vissuto a Erlangen, in Germania, fino al 2000, dov’è morto di vecchiaia mentre in Italia gli si stava imbastendo il processo. Non tutte le vendette andarono a segno. Altre sfuggono a ogni comprensione. Marilena Grill, sedici anni, fu giustiziata nella notte fra il 2 e il 3 maggio nella caserma di corso Valdocco. Era stata arrestata il 28 in quanto ausiliaria: cercava notizie sui dispersi di guerra. Quando la portarono via, volle indossare l’uniforme. Un partigiano le disse: «A che ti serve? Ma sai dove vai? Vai alla fucilazione». Marilena rispose: «Davvero?».