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 2005  aprile 19 Martedì calendario

«La liberazione 60 anni dopo - Milano» (5), La Stampa 19/4/2005. Il problema dei gappisti era che non conoscevano la faccia dell’avvocato De Martino

«La liberazione 60 anni dopo - Milano» (5), La Stampa 19/4/2005. Il problema dei gappisti era che non conoscevano la faccia dell’avvocato De Martino. In realtà non ne conoscevano nemmeno il nome. Lo chiamavano così: avvocato De Martino. Giovanni Pesce - nome di battaglia «Visone» perché è nato a Visone di Acqui, comandante del 3° Gap (Gruppi armati patriottici) «Egisto Rubini» - anni dopo avrebbe spiegato che gli antifascisti erano minacciati da una spia. «Abbiamo la prova che la spia è un certo avvocato De Martino, dirigente dell’ufficio politico della Questura», raccontò. Per il suo ruolo, De Martino è automaticamente una spia. Ma come si fa a uccidere un uomo senza sapere che volto abbia? Una mattina di metà agosto 1944 la venticinquenne Onorina Brambilla - nome di battaglia «Sandra» - entrò nello studio dell’avvocato De Martino in via Telesio a Milano. Disse di avere una sorella incinta: il padre era un caduto di guerra e i due non avevano avuto il tempo di sposarsi. Era possibile dare al bimbo il cognome paterno? «Chi è caduto per la patria ha tutti i diritti della nostra riconoscenza», rispose l’avvocato dopo aver esaminato il caso e prima di congedare la ragazza. Pesce ricorda così quello che accadde il successivo 1° settembre: «I due gappisti si appostano all’inizio e alla fine di via Telesio. Pochi minuti prima dell’arrivo della macchina di De Martino giungo a braccetto di Sandra. Compare da via Ariosto una grossa automobile. Sandra riconosce l’uomo attraverso i cristalli. Do il segnale. I due gappisti si incamminano sul marciapiede l’uno verso l’altro per incontrarsi davanti al portone numero 8, nel momento in cui si sarebbe arrestata l’automobile con la spia a bordo. Abbiamo calcolato esattamente i tempi e non è la prima volta che eseguiamo una simile manovra. De Martino scende dall’auto, accompagnato dalla scorta, fa tre passi sul marciapiede e cade colpito da tre colpi di pistola. La scorta, sorpresa, non reagisce immediatamente. Quando spara contro i gappisti in corsa è troppo tardi». Giovanni Pesce aveva preso da poco il comando della «Egisto Rubini». Si chiamava così in onore del fondatore. Ancora oggi Onorina «Sandra» Brambilla sostiene che Egisto morì per le sevizie a San Vittore. In realtà si impiccò in cella, nel febbraio del 1944, per timore di cedere alla tortura e fare i nomi dei compagni. Era stato Egisto a pianificare l’esecuzione del federale di Milano, Aldo Resega. Incaricò «Barbisùn» e «Giulio». I due non sapevano nemmeno a chi avrebbero dovuto sparare. Gli sarebbe stato indicato l’obiettivo, e basta. La mattina del 18 dicembre 1943 Resega uscì dal portone di via Bronzetti per andare a prendere il tram che l’avrebbe condotto al lavoro, senza scorta. Una coppia, potevano sembrare fidanzati, si salutò, lui sollevando il cappello. Era il segnale. Resega fu abbattuto con otto colpi di rivoltella e i due partigiani conobbero soltanto in serata quale pezzo grosso avevano eliminato. Furono compensati con un paio di scarpe nuove e un pacchetto di sigarette. Ma in quell’inizio settembre del 1944, Giovanni Pesce nemmeno immaginava quale sarebbe stato il sogno a portata di mano. Aveva già una fama notevole, fra i suoi. L’anno precedente, a Torino, gli erano bastati otto proiettili in un’incredibile azione solitaria per uccidere quattro soldati tedeschi. Su di sé portava i segni di tre ferite rimediate in Spagna, nella guerra civile che combatté diciottenne con i comunisti. Era stato in confino a Ventotene. Citava Danton. A 26 anni non gli mancava nulla per essere un idolo. Il suo prestigio non si era incrinato nemmeno l’8 agosto 1944. Quella mattina all’angolo fra viale Abruzzi e piazzale Loreto esplose una bomba nascosta sotto un autocarro della Wehrmacht. Probabilmente le vittime furono sei, sebbene qualche storico dica sette, altri otto, altri arrivano fino a quindici. Probabilmente erano civili. I corpi erano così malridotti che non si poté stabilire con certezza se fossero tedeschi, italiani, adulti, maschi o femmine. Probabilmente c’erano bambini. Tutti pensarono fosse opera dei Gap di Pesce, ma Pesce non s’è mai attribuito quell’iniziativa. Giovanni Jannetti aveva una specialità: si fingeva partigiano, prendeva contatti con le bande, si infiltrava, tendeva tranelli, faceva arrestare chi ci cascava. In seguito si pretese che molti dei quindici messi al muro il 10 agosto a piazzale Loreto fossero vittime sue. Qualcuno disse addirittura di avere visto Jannetti lì, quel 10 agosto, mischiato fra la folla a seguire la fucilazione. Per vendicarsi dell’attentato di due giorni prima, i tedeschi prelevarono da San Vittore quindici prigionieri politici. Alle sei del mattino il plotone della «Ettore Muti», brigata fascista, era schierato. Ci fu la prima raffica. Uno dei condannati, Egidio Mastrodomenico, riuscì a fuggire ma lo rincorsero, lo presero nel giro di pochi minuti, lo massacrarono di calci e pugni, lo riportarono nel gruppo che era già mezzo morto. L’esecuzione poteva concludersi. Ci furono altre raffiche e tutti caddero. Sembrava finita quando dal cumulo di corpi riemersero in due, feriti ma vivi. Uno si chiamava Liberto Temolo, l’altro non si sa. Grazie alla confusione riuscirono a dileguarsi e a infilarsi in un condominio. Fu la portinaia a tradirli, indicando alle camicie nere dove i due s’erano rifugiati. Vennero trascinati di nuovo in piazzale Loreto e finiti. I corpi rimasero esposti per l’intera giornata. Benito Mussolini giunse a Milano il 16 dicembre 1944. Girò per la città su una macchina scoperta e c’era folla ad acclamarlo. Ne fu confortato. Anche il discorso al Teatro Lirico andò bene. Il Duce fu applaudito ripetutamente. Era importante per lui. Aveva protestato per l’eccidio di piazzale Loreto ma il comando tedesco aveva accolto la sua ira con una certa noncuranza. Mussolini si era chiesto se la sue rimostranze non fossero state troppo arrendevoli. Temeva di aver perso anche il favore di Milano, ma quel 16 dicembre si rincuorò. Specialmente la gente per strada era tanta ed entusiasta. Dentro a quel tumulto c’era anche Giovanni Pesce. Negli anni a venire «Visone» racconterà di aver studiato tutto nei minimi particolari. Il punto dove far fuoco, la bicicletta per fuggire approfittando del caos. Vide passare Mussolini, ma dovette tenere la pistola in tasca. Non immaginava che i militari schierati a difesa del Duce sarebbero stati tanti, e il cordone difensivo così impenetrabile. Tornò a casa deluso e angosciato da una domanda che si ripeteva da oltre due mesi: che fine aveva fatto Onorina, nome di battaglia «Sandra»? Il 12 settembre 1944, undici giorni dopo l’uccisione dell’avvocato De Martino, Aldo Arconati era in piazza Argentina. Aspettava due persone, un uomo e una donna. Non sapeva come si chiamassero. Ne conosceva solo i nomi di battaglia: «Visone» e «Sandra». Era al corrente, come molti, che c’erano anche loro fra gli autori del colpo alla Stazione Centrale. Nonostante le due carneficine di piazzale Loreto e le continue rappresaglie, avevano deciso di andare avanti. «Le domande ce le siamo poste tutti, mille volte, davanti ai caduti, agli innocenti sacrificati», dirà anni dopo Giovanni Pesce, «Visone». Così, dopo De Martino, arrivò l’attentato alla Stazione. «Mi reco in laboratorio dove per la prima volta riceviamo matite esplosive in luogo della miccia e mi isso lo zaino sulle spalle. Quando arrivo in via Copernico, Azzini, in uniforme fascista, mi attende. Gli passo lo zaino. Giulio, il tecnico, ci lascia ai piedi della scalinata. Nerva prosegue da sola, precedendo Azzini. Anch’io gli stringo la mano e mi allontano. Azzini sale gli scalini un po’ curvo sotto il peso dello zaino, diretto al posto di ristoro. Quando Azzini arriva al posto di ristoro lo trova pieno di tedeschi e di fascisti. Azzini entra nel locale, si toglie lo zaino, lo posa per terra in un angolo. Caldo soffocante e tanta gente che parla forte e che ride». Sono le parole di Pesce nel suo libro Senza tregua, la guerra dei Gap. Quel 12 settembre 1944, mentre Aldo Arconati aspettava «Visone» e «Sandra», erano numerosi i feriti ancora ricoverati per l’esplosione in Centrale. C’era stato un solo morto: un’infermiera tedesca. L’arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster, aveva supplicato i nazisti, che accettarono, di evitare un’altra piazzale Loreto. Arconati doveva consegnare armi e munizioni a «Sandra» e a «Visone». Vide arrivare soltanto «Sandra». Lei gli si avvicinò e disse: «Mi manda ”Visone”». Lui rispose: «Attenta, siamo circondati». La prese per un braccio, la trascinò per pochi passi, poi la mollò e si allontanò quasi tranquillo nel medesimo istante in cui «Sandra» sentì delle mani su di sé. Erano quelle di poliziotti fascisti. «Sandra» fu rinchiusa a San Vittore e picchiata, ma negò di conoscere «Visone». La trasferirono nel campo di concentramento di Bolzano da dove sarebbe uscita solo dopo la Liberazione. Allora avrebbe saputo il vero nome di Aldo Arconati: Giovanni Jannetti, il delatore. Il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione, Benito Mussolini lo trascorse a Milano. I partigiani avevano proclamato l’insurrezione e lo sciopero generale, ma questo non impedì al Duce di muoversi per la città piuttosto liberamente. Dalla prefettura andò all’Arcivescovado a trattare la resa. Si infuriò quando seppe di essere stato tradito dai tedeschi che a loro volta negoziavano con gli Alleati. Si congedò da Schuster e dai rappresentanti del Comitato di liberazione dando loro appuntamento per il tardo pomeriggio. Intorno alle 20,30, stanchi di aspettare, dall’Arcivescovado chiamarono il prefetto e seppero che da mezz’ora il Duce aveva lasciato Milano. Ci sarebbe tornato per essere appeso a piazzale Loreto nello stesso punto dell’attentato e del successivo massacro. «Visone» e «Sandra» si sono sposati. Giovanni Jannetti è stato fucilato dai partigiani.