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 2005  aprile 21 Giovedì calendario

DEMARCO

Marco Napoli 12 novembre 1955. Giornalista. Direttore del “Corriere del Mezzogiorno” • «La caduta del muro di Berlino. La crisi del Partito comunista italiano. Il tradimento di Bassolino che aveva promesso di far diventare Bagnoli un paradiso turistico. Una botta dietro l’altra. Trent’anni di tessera buttati alle ortiche. Ecco come finisce una militanza vissuta intensamente. Aveva cominciato a fare il giornalista all’“Unità”, comunista, era arrivato fi in cima o quasi, vicedirettore. Marco Demarco, veltroniano, bassoliniano. [...] “[...] Sono l’ultimo di cinque figli. Nino, Nuccio, Licia Maria Grazia e Marco. Mia madre era operaia delle manifatture dei tabacchi, mio padre cancelliere al tribunale di Napoli. Morì che avevo 11 anni [...] Frequentavo un’associazione cattolica, Cidros, che faceva capo a un gruppo di gesuiti che vivevano in comunità. Grazie a loro già a 13 anni cominciavo a balbettare qualche parola di politica. C’era grande attenzione verso la sinistra, anche quella più estrema. Un giorno in cui andai al gabinetto in una di queste case dei gesuiti rimasi colpito. Sulla parete dietro alla tazza c’era un manifesto del Che Guevara. Uno di noi divenne nappista e finì in galera. [...] Io a Bagnoli ci sono stato fino a 20 anni, quando mi sono sposato. Abitavo a cento metri dall’Italsider. [...] Ricordo gli anni dell’‘Unità a Napoli’. Avevo l’incubo dei dirigenti che ogni settimana passavano da noi. Da Napolitano ad Abdon Alinovi li ho subiti tutti. Non gli andava mai bene nulla. Parlavano tre ore e poi si lamentavano che il pezzo di trenta righe non rispecchiava il loro pensiero. Si perdevano nelle minuzie. Minuti e minuti a parlare di particolari insignificanti. [...] Facevo il liceo classico al Genovesi dove avevo scoperto un’altra Napoli, aristocratica, ricca, colta. Con le case piene di libri, di mobili, di servitù. Dove si faceva ancora il baciamano. Scoprii la cultura. Fabio Ciaramelli che era una sorta di fratello, padre, amico, il primo che mi ha passato dei libri da leggere, mi fece scoprire Quasimodo, Ungaretti, Levi. Comprai il mio primo disco, i Vangeli apocrifi di Fabrizio De André. Lo so a memoria. ‘Poterti smembrare coi denti e le mani, sapere i tuoi occhi bevuti dai cani’, potrei cantare tutto. Cominciai a mettere assieme un po’ di cultura attraverso la musica. Il primo disco che ricordo è Milord, cantato da Edith Piaf, poi Pregherò, versione italiana di Stand by me, poi Gino Paoli, Luigi Tenco, Jacques Brel, Gilbert Bécaud. Comincio un percorso pessimistico e arrivo a Pavese di cui leggo tutto, senza capire nulla. A scuola andavo bene. Nei temi ero una continua citazione. Ma facevo errori di ortografia. Uno in modo particolare: faggioli con due “g”. Quando me ne resi conto ebbi forte il senso della differenza di classe. Nessuno dei miei compagni, ricchi e colti, faceva errori del genere. Il primo articolo? Per un giornaletto della Fgci, una recensione dello spettacolo di Giorgio Gaber Anche per oggi non si vola. Era tutto un discorso teso a dire che anche oggi la rivoluzione non si fa [...] Demolii Gaber. Ennio Simeone, che allora era il capo della pagina dell’‘Unità’ di Napoli, cominciò a farmi scrivere. [...] Durante una delle cicliche crisi dell’‘Unità’ andammo a Botteghe Oscure. Era segretario D’Alema. Al secondo piano ci sedemmo attorno al tavolo rotondo delle riunioni importanti, da una parte noi giornalisti [...] Dall’altra D’Alema con i suoi ‘Lothar’, gli uomini del suo staff, tutti calvi, Velardi, Minniti, Rondolino. D’Alema appena ci vide disse: ‘Io sono il proprietario, voi siete giornalisti. Ora sedetevi e ditemi quello che volete’ [...] Avevo una nemica all’‘Unità’, Letizia Paolozzi. Era la rappresentante del femminismo nelle sue forme più radicali. lei era per un giornale più politicizzato, io spingevo per un giornale più normale, più simile ai giornali borghesi, più giornalistico [...] Io fui contro Veltroni all’inizio. Rappresentava il partito che veniva a riprendersi il giornale. Poi Walter mi conquistò. Un giorno mio figlio cadde dal motorino e finì all’ospedale. Io ero al cinema e arrivai due ore dopo. Trovai Veltroni che lo vegliava [...] Veltroni ha trasformato l’‘Unità’ in uno status symbol. Avere l’‘Unità’ in tasca voleva dire essere un amante del modello americano, di una certa musica, di certi film, voleva dire predominanza del sentimento sul dogma, appartenere a un gruppo” [...]» (Claudio Sabelli Fioretti, “Sette” n. 35/2000).