Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 20/04/2005, 20 aprile 2005
Dialogo sulla religione, Corriere della Sera, 20/04/2005 Nell’ottobre 2004 Joseph Ratzinger ed Ernesto Galli della Loggia si erano confrontati su « storia, politica e religione » nell’ambito degli incontri organizzati dal Centro di orientamento politico presieduto da Gaetano Rebecchini
Dialogo sulla religione, Corriere della Sera, 20/04/2005 Nell’ottobre 2004 Joseph Ratzinger ed Ernesto Galli della Loggia si erano confrontati su « storia, politica e religione » nell’ambito degli incontri organizzati dal Centro di orientamento politico presieduto da Gaetano Rebecchini. Ecco uno stralcio di quel dialogo. JOSEPH RATZINGER – Ci troviamo in una situazione del mondo in cui conviene mobilitare tutte le forze morali per riuscire a stabilire una convivenza pacifica. Abbiamo bisogno del dialogo di tutti i responsabili. Vediamo certamente che nel mondo di oggi esistono tante nuove possibilità positive, tante speranze, maanche tante minacce e tanti pericoli. E su questo sottofondo del nostro dialogo vorrei indicare due elementi. Il primo: il nostro mondo, come vediamo e tocchiamo ogni giorno, è caratterizzato da una progressiva unificazione. Tutte le culture si toccano in permanenza, in Europa sono presenti l’Asia e l’Africa, è presente il mondo musulmano e nelle altre parti del mondo sono presenti le altre culture. Soprattutto c’è una presenza universale della cultura tecnica nata in Occidente e determinante in tutte le parti del mondo per la vita di ogni giorno. C’è una presenza unificante, in un certo senso, della cultura tecnica e così della cultura laica. Vediamo come gli edifici siano uguali ovunque nel mondo, la televisione dà uniformazione al nostro comportamento, fino al vestiti e ai canti, e questo fattore tuttavia ha due aspetti: da una parte crea unificazione fino alla uniformità, ma nello stesso tempo provoca ribellione, resistenza contro questa imposizione, contro una cultura aliena che appare anche, nonostante tutti i vantaggi che comporta, una imposizione straniera e una minaccia contro la propria identità. Così vediamo che insieme a questa unificazione cresce anche una ribellione contro l’uniformità, un desiderio, una volontà ferma, radicale, anzi violenta di difendere la propria identità contro questa uniformazione, un’esacerbazione contro un’imposizione che appare da una parte utile, dall’altra come schiavitù. C’è da aggiungere che si vede in tutte le parti del mondo il lusso del mondo occidentale, si può immaginare che tutti qui vivano nella ricchezza e nel lusso e fare esperienza nello stesso momento della propria povertà e della propria espropriazione non solo culturale ma anche materiale. La contraddittorietà di questa cultura che appare dall’Occidente e si mostra nel proprio mondo radicalizza il senso di una schiavitù contro la quale ci si deve difendere. Così l’uniformazione crea anche la parzializzazione delle culture del mondo e l’opposizione tra queste culture. Questa cultura è considerata occidentale, l’Occidente è identificato con cristianesimo e quindi questa opposizione si dirige non solo contro l’Occidente ma diventa anche un’opposizione crescente contro la cristianità e il cristianesimo. Trovare una risposta giusta tra unità e molteplicità mi sembra una cosa importante, nel rispetto delle altre culture e tra l’insieme della cultura uniformante dell’Occidente e la ricchezza delle grandi culture. L’altro punto al quale volevo accennare consiste nel fatto che è cresciuto, in un modo inimmaginabile fino a poco tempo fa, il potere dell’uomo. Potere che arriva fino alla possibilità dell’autodistruzione, della distruzione del proprio pianeta, potere che d’altra parte è arrivato alle radici del nostro essere: l’uomo è capace di fare l’uomo, di produrre in laboratorio l’uomo. L’uomo non appare più come un dono della natura, di Dio, ma diventa un prodotto nostro, che si può fabbricare e, quando si può fabbricare, si può anche distruggere, sostituire con altre cose. Così, questa capacità di per sé positiva di andare fino alle radici del suo essere diventa man mano una minaccia più pericolosa dei mezzi di distruzione, perché tocca l’essere umano nel più intimo fondamento. L’uomo «fatto» , l’uomo fabbricato, diventa anche unamerce; si possono produrre esseri umani per scopi di ricerca, sempre con apparenti benefici. Tuttavia l’uomo diventa, la stessa creatura umana diventa, un laboratorio con il quale cercare dei progressi in certi settori. E così automaticamente si è introdotto anche il commercio dell’essere umano, l’uomo comemerce. Lo vediamo non solo nel mercato degli organi, maanche nel mercato della prostituzione e della pedofilia, in tutti questi fenomeni di una società veramente ammalata, che non vede più nell’uomo lo splendore divino ma solo un prodotto fatto da noi. Da una parte abbiamo questa crescita, inimmaginabile fino a poco tempo fa, delle nostre capacità, delle nostre possibilità, del nostro potere, che potrebbe essere, ed è in molti sensi, una cosa positiva. Ma è anche, come ho accennato, qualcosa che implica grandi pericoli. Dobbiamo dire che con questa capacità di fare, con questa capacità di produrre, con queste conoscenze della ricerca che arrivano fino alle radici dell’essere non è cresciuta ugualmente la nostra capacità morale. Questa mi sembra la formula più precisa per esprimere il dilemma del nostro tempo che vediamo con il crescere permanente delle nostre capacità, del nostro potere e una crescita non equivalente delle nostre capacità morali. Questo squilibrio tra potere tecnico, potere di fare, e la capacità di dominare il nostro essere con principi che garantiscono la dignità dell’uomo e il rispetto della creatura, del mondo, questo squilibrio è la grande sfida alla quale rispondere positivamente è dovere di noi tutti. Quindi provoca necessariamente la necessità di un dialogo aperto, franco, tra rappresentanti della fede cristiana e laici di diverse sfumature, perché sappiamo bene che il concetto di laico, come quello di cristiano, implica tante diverse realizzazioni. Sono venuto quindi a questo dialogo con la consapevolezza di una comune responsabilità nel far fronte alla sfida dello squilibrio tra il nostro potere e la nostra capacità morale e il mio scopo nel dialogo con il professor Galli della Loggia è proprio quello di cercare insieme, forse non risposte già pronte, ma almeno piste sulle quali si può andare avanti. ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA – Sua Eminenza ha spiegato l’intendimento di questo colloquio. Anch’io penso che oggi la considerazione per gli elementi spirituali e religiosi sia diventata un elemento fondamentale per l’orientamento nella situazione storica nella quale ci troviamo, indipendentemente dalla fede che ognuno di noi custodisce nel proprio cuore o manifesta all’esterno. Proprio per questo anche la parola « laico » è una parola che forse copre a stento la molteplicità di significati che oggi più che mai le possono essere attribuiti. Mi sono posto di fronte al tema gigantesco del nostro colloquio con le mie competenze culturali e professionali, per quello che sono, cioè quelle di uno storico. Mi sembra, da questo punto di vista, se è possibile rinvenire un filo rosso che lega molti aspetti della situazione odierna, che si potrebbe cominciare forse con l’ipotesi che la globalizzazione segni un momento di crisi e di rottura nella secolarizzazione, in quel processo cioè che l’Europa vive da duecento anni e che ha visto la sostituzione dell’antica fede religiosa come elemento di orientamento e di guida per la maggior parte degli abitanti di una società nel suo complesso. Questa appartenenza religiosa è stata via via erosa e sostituita da altre due appartenenze identitarie: l’appartenenza ideologica e le appartenenze nazionali. Esse sono state, mi sembra, i due grandi surrogati della fede religiosa tradizionale che hanno caratterizzato il lungo percorso della secolarizzazione occidentale. Oggi però, se non m’inganno, la globalizzazione mette in crisi precisamente queste due grandi prospettive che da duecento anni accompagnano l’Occidente e cioè appartenenza ideologica e nazionale. Entrambe segnano evidentissimi momenti di difficoltà, se non addirittura di discredito culturale. L’identità nazionale e le identità ideologiche le sentiamo sempre più come cose che non funzionano. La globalizzazione segna un processo di sgretolamento di queste due identità e ilmondo politico reagisce con difficoltà alla riproposizione del problema dell’identità. Nelle nostre società si sta creando, proprio per effetto della globalizzazione, un grande vuoto identitario e a reagire con difficoltà è soprattutto il mondo politico democratico, perché il tema dell’identità è un tema sentito come pericoloso. un tema che contrasta, forse semplicemente in apparenza, main realtà per alcuni aspetti contrasta realmente, con la tensione universalistica tipica del pensiero democratico. Quella che ormai noi abbiamo assorbito nelle nostre istituzioni, che il nostro stesso pensare sociale ha assorbito. Il fattore identitario sembra contraddire questa spinta universalistica, tipica della democrazia. Ame pare che ci siano molti aspetti che possano essere ricondotti a questa difficoltà, a questo vuoto identitario. Ne cito soltanto uno, perché mi sembra naturalmente quello più importante: l’emergere rapido e prepotente, dappertutto in Occidente, della tematica dei diritti umani come unica possibile appartenenza identitaria dei popoli dell’Occidente. Anche perché il tema dei diritti umani è un tema metanazionale e in qualche modo metaideologico, anche se in realtà assistiamo a una forte ideologizzazione di quel tema. Non è un caso, credo, che l’Unione Europea abbia deciso, e abbia scritto nella sua Costituzione, che essa è quel soggetto politico che esiste per l’appunto per sostenere i diritti umani, che la sua vera sostanza ideologica è nei diritti umani, non nella democrazia: nei diritti umani ( questo è scritto, se non vado errato, nei primissimi articoli della Costituzione) e in quella sorta di appendice esterna dei diritti umani che è la promozione della pace e in generale la promozione di tutte le organizzazioni e dell’idea di organizzazione internazionale. Penso che forse bisogna chiedersi da dove nascono i diritti umani, ma mi pare ci sia stato il rifiuto di farsi questa domanda. Sono un prius oppure nascono su un terreno storico, sono a loro volta le conseguenze di qualcosa? E se così è, come credo sia difficile negare, si può riandare alla fonte dei diritti umani oppure no? L’Unione Europea ha risposto di no, che non si può andare a vedere da dove vengono i diritti umani. Perché ci sarebbe il problema, storicamente inoppugnabile, che i diritti umani nascono nell’ambito della cultura e della civiltà giudaico cristiana. Ma questo non si può dire, perché giudaismo e cristianesimo sono religioni e quindi, a maggioranza, è stato deciso che sarebbe inopportuno. Può darsi che si tratti di una decisione saggia, non lo discuto, però è interessante ripercorrere lo svolgimento delle cose. Quindi, in questa logica, i diritti umani esistono a prescindere da ciò da cui sono nati, da qualsiasi loro elemento fondativo. Bastano a se stessi, di per sé sono un’identità. In questo modo sono una pura identità procedurale, svincolati dalla propria base storica, diventano un’identità. Habermas ha parlato molte volte di «patriottismo costituzionale» , per contrapporlo al patriottismo valoriale, fondato cioè sui valori di tipo identitario storico. Ora mi sembra che siamo di fronte a qualcosa che assomiglia al patriottismo costituzionale, a un’identità procedurale. Il problema è che le altre culture, gli altri protagonisti della scena internazionale non credono che i diritti umani siano procedurali. Pensano viceversa che siano, come è difficile negare, il frutto di una cultura determinata e che questa è la cultura dell’Occidente. Quindi non vedono affatto nei diritti umani quella sorta di identità metanazionale di cui tutti potrebbero fruire. Bensì, molto spesso, proprio nelle sedi internazionali, vedono nei diritti umani uno strumento dell’imperialismo ideologico dell’Occidente, ne denunciano l’apparenza falsa di ideologia per tutti, di segno universale. Ne denunciano l’aspetto, a loro giudizio, assolutamente ideologico e assolutamente occidentale e quindi il tentativo imperialistico di sopraffazione che sarebbe dietro la diffusione di questi diritti. Anche da qui la risposta del fondamentalismo cui ha accennato il cardinale Ratzinger. JOSEPH RATZINGER – Io penso, per rispondere a quanto è stato detto dal professore, che il puro positivismo dei diritti umani come tale non può essere in nessun senso un’ultima parola. Forse è sufficiente per una costituzione, non lo posso decidere, ma per il nostro dibattito culturale umano, per il nostro incontro con le altre culture non è sufficiente... Il relativismo da un parte può apparire come positivo, in quanto invita alla tolleranza, facilita la convivenza, il riconoscimento fra culture, fino al punto di ridimensionare le proprie convinzioni e riconoscere il valore degli altri relativizzando se stessi: è un passo positivo. Ma se si trasforma in un assoluto, il relativismo diventa contraddittorio in se stesso, distrugge l’agire umano e in ultima istanza mi sembra una mutilazione della nostra ragione. Ragionevole viene considerato allora soltanto ciò che è calcolabile e falsificabile o provabile nell’esperimento del grande settore, settore ammirevole, delle scienze. Qui si vede se questo è falso, se questo non lo è, se questo funziona e questo non funziona. Questo settore appare come l’unica espressione della razionalità, tutto il resto è soggettivo. Il grande fisico Max Planck si considerava come un uomo religioso, tuttavia ha detto che dobbiamo ripristinare la religione ma come una cosa del soggetto. Ma se le questioni essenziali della vita umana, le grandi decisioni sulla vita, sulla famiglia, sulla morte, sui comportamenti, sulla condivisione della libertà e il modo etico di condividerla, sono tutti solo nella sfera della soggettività, allora non abbiamo più criteri. Ogni uomo può e deve agire soltanto secondo la sua cosiddetta coscienza. Coscienza, nella modernità, diventa la divinizzazione della soggettività, mentre nella tradizione cristiana è proprio il contrario, è la convinzione che l’uomo è trasparente e può sentire in se stesso la voce della ragione stessa, della ragione fondante del mondo. E quindi il soggetto non è chiuso in sé, un’ultima istanza, come una divinità, ma è una realtà aperta, per la ragione stessa che ciò ci permette di comunicare nelle grandi decisioni della nostra vita. Superare quindi un razionalismo unilaterale che in realtà non allarga la ragione, non eleva la ragione maamputa e riduce, e arrivare a una più larga concezione della ragione, che è creata non soltanto per poter farema per poter conoscere le cose essenziali della vita umana, è un imperativo urgente, del resto espresso nell’enciclica Fides et ratio . Il professore ha notato la questione se lo ius naturale difeso dalla Chiesa cattolica può essere una risposta a questo e sappiamo bene che il mondo di oggi è convinto che non sia una risposta. Per la Chiesa era l’idea, la visione di un diritto naturale insito nella stessa creatura umana, il mezzo per poter dialogare con quanti non condividono la fede. Adesso anche il concetto di natura è ridotto al puramente empirico, a quanto si può osservare con la scienza, con la biologia nella dottrina dell’evoluzione. Quindi natura non indica più niente di umano, il diritto naturale si riduce quindi, aveva detto Ulpiano nel secondo secolo dopo Cristo, natura naturale est quod natura omnia animalia ducet . Ma noi non abbiamo bisogno soltanto di ciò che possono imparare tutti gli animali ma proprio dello specifico umano e questo in una natura così considerata non appare. Madobbiamo forse tenere presente in quale senso nell’epoca moderna il concetto di diritto naturale che viene dall’antichità è rinato ed è stato rafforzato da due fonti: la scoperta delle Americhe era un grande appello, una grande domanda anche alla cristianità. Queste genti, questi popoli che non appartengono alla cristianità, che non sono battezzati, che non appartengono alla nostra sfera di diritto, hanno un diritto o no? Sono da rispettare come soggetti di diritto o essendone fuori non hanno diritti e possiamo farne ciò che vogliamo? La posizione che finalmente ha vinto, con tante difficoltà, era quella che sì, hanno un diritto perché sono persone umane e come creature umane hanno il diritto insito nell’essere umano come tale. Questa non è una dottrina occidentale maera proprio la difesa dei non occidentali contro l’Occidente e rimarrà tale. fondamentale, nel nostro essere insieme, che l’uomo di per sé, senza nessun sistema precedente di diritto, è portatore di un diritto della persona umana come tale. Il secondo punto è la divisione confessionale dell’Europa. C’era da ritrovare tra gli Stati una forma di pace anche morale, non solo giuridica e qui si è capito che se nella fede siamo divisi, abbiamo tutti la natura umana che indica comportamenti morali fondamentali. Penso che non dovrebbe essere così impossibile, con tutte le riserve contro la metafisica che ben conosciamo, capire che questa non è un’invenzione cattolicama è proprio la risposta alle sfide dell’essere umano: il riconoscimento che l’uomo, prima di tutte le costituzioni, ha diritti e il diritto deve conformarsi ai diritti e non i diritti alla costituzione. Dobbiamo anche ritrovare questi elementi in un dialogo interculturale perché, in forme diverse, questa stessa conoscenza è presente anche nelle altre culture, seppure non nello stessomodo, e dal nostro punto di vista è ancora da migliorare, come le nostre conoscenze. Pensiamo all’idea del Tao nel mondo cinese, del Dharma nelmondo indiano: concetti che presuppongono che l’uomo si trovi in un ordine del cosmo, che gli indica come vivere e che precede le nostre decisioni. Quindi questa interculturalità, per riguadagnare un concetto comprensibile e accettabile, che divenga la piattaforma per una visione etica comune, mi sembra di grande importanza. Arrivo al problema se la tradizione cristiana sia compatibile con il concetto di libertà sviluppato nella modernità, nel laicismo. Io distinguo tra laicismo e laicità, e se è così, per me è molto importante superare un malinteso concetto individualistico della libertà. C’è un concetto di libertà per il quale esiste solo, come portatore della libertà, il soggetto, l’individuo. il vecchio sogno di essere come un dio. Ma da due punti di vista è assolutamente sbagliato. sbagliato dal punto di vista antropologico, perché l’uomo è un essere finito, è un essere creato per convivere con altri e quindi la sua libertà necessariamente deve essere una libertà condivisa, che insieme garantisca per tutti la libertà e quindi supponga anche la rinuncia alla assolutizzazione dell’io, che è contro la verità e contro la realtà empirica. Reimparare che la libertà è ben definita antropologicamente e sociologicamente soltanto se interpretata come libertà condivisa, è una cosa che implica il diritto comune, l’autorità. C’è il grande errore di considerare l’autorità in contrasto con la libertà. In realtà, un’autorità ben definita è la condizione della libertà, non in contrasto con essa. Siamo sulla strada dellemigliori tradizioni cristiane, che sempre suppongono che l’uomo è creato per la libertà, una libertà umana, che è libertà condivisa. errata la convinzione che la mia volontà sia la mia unica misura e il mio unico criterio, anche da un punto di vista teologico. Questa idea, rendendo l’uomo come un dio, implica che possa fare come vuole, vede un idolo e non Dio, perché il vero Dio è verità e amore e quindi la sua libertà è una libertà definita dalla verità e dall’amore. Ernesto Galli della Loggia