La Repubblica 19/04/2005, pag.49 Rodolfo Di Giammarco, 19 aprile 2005
Intervista Pippo Delbono. La Repubblica 19/04/2005. Pippo Delbono ha plasmato un teatro di emozioni a misura d´uomo, ha messo in piedi una compagnia di vagabondi e anomali, ha creato eventi di intensità più vissuta che recitata, e ora sta per completare un film
Intervista Pippo Delbono. La Repubblica 19/04/2005. Pippo Delbono ha plasmato un teatro di emozioni a misura d´uomo, ha messo in piedi una compagnia di vagabondi e anomali, ha creato eventi di intensità più vissuta che recitata, e ora sta per completare un film. Un film senza sceneggiatura e senza ancora distribuzione, finanziato (200.000 euro) dalla Provincia Autonoma di Trento e sostenuto da Teatri Uniti, Downtown Pictures, Festival di Dro ed Emilia Romagna Teatro. Il set ha comportato uno scarto di tecniche, di temi o di rapporti con gli attori? C´è sempre lei, lo stesso lei che conosciamo, o no? "Direi che oltre ai miei attori di sempre ci sono io forse all´ennesima potenza. Nel film racconto la lotta dell´uomo per cambiare il proprio destino. La mia lotta. Nel senso che ci ho messo dentro teatro, vita e amore. Il primo quarto d´ora fa riferimento a pezzi del mio Enrico V, e poi, a parte alcuni interni girati nella Centrale di Fies a Dro, viene fuori un rapporto di amore e odio con Napoli, risalente al 1997, quando mi sembrò di soccorrere e dare una mano a Bobò che era un microcefalo internato ad Aversa, mentre in realtà fu lui, destinato da allora ad assumere un ruolo di costante riferimento nei miei lavori, ad aiutare e salvare me". Aiutarla e salvarla da cosa? "Vede, oggi io sono riuscito a fare quello che in fondo volevo, e magari riesco a parlare a molti perché tratto zone interne e profonde che sono più sacre del capire, perché non mi isolo dal mondo, perché mi sporco le mani anche con Genet o Pasolini, perché vedo in Bobò un Pulcinella, perché mi interessano pubblici diversi e perché in definitiva mi dà più piacere la sarta che ha visto tre volte Urlo piuttosto che un intellettuale (io con l´apparato culturale mi ci scontro). Ma prima che accadesse tutto questo io ho convissuto con la morte e col dolore. Ho dovuto far fronte a vuoti, handicap, depressioni". Un mestiere di vivere difficile o una gavetta artistica accidentata? "Io nasco in un paesino piccolo della Liguria, ho fatto il chierichetto e il boy-scout, a tre anni e mezzo ero un Gesù Bambino coi riccioli biondi. Madre insegnante, papà segretario d´ospedale (dopo aver deposto il violino, lui forse discendente di Paganini) che è morto 22 anni fa. Io amavo il teatro. Ho lasciato Economia e Commercio a quattro esami dalla laurea. Ho condiviso arte, viaggi ed esperienze con un grande amico divenuto tossicomane, stroncato giovane. Un trauma. Nell´89 mi sono scoperto affetto da una malattia grave, con conseguente esaurimento nervoso. Pur figlio di madre cattolicissima, ho scelto un´altra spiritualità (lei mi diceva "Tutto passa perché Dio perdona" e andava a Lourdes). Ho avuto bisogno del teatro". Che teatro? "Ho fatto pratica di nascosto, sono stato un ribelle in un corso del polacco Ryszard Cieslak, ho incontrato Pepe Robledo in un seminario, ho fatto un training all´Odin in Danimarca, da noi ho dato ripetizioni in una scuola per cuochi, ho frequentato danza, a Farfa ho dato grande fiducia a due donne, la Bausch e la Rasmussen, forti ma anche fragili. Gli uomini sono più chiusi, hanno paura di restare feriti, ma io amo il maestro che sa piangere, come in Madadayo di Kurosawa. Feci proposte anti-Odin, a base di Blues Brothers, Laurie Anderson, Janis Joplin. Pina Bausch mi disse "Segui la tua strada, tu sei un creatore". Poi, anni dopo, mi ha voluto a Wuppertal con Barboni, accanto a Baryshnikov e Forsythe. Nel frattempo ero andato in Sud America, nei villaggi indios, per trovare lo spirito della gente comune, che veniva allo spettacolo dopo essere andata a messa. Anni duri, con la malattia che m´aveva causato un´infezione al midollo, da non farmi camminare. Ma fare l´attore e impostare temi e storie era tutto. Ne La rabbia mi servì molto la coscienza del Pasolini uomo anche incoerente, diverso, ma mai di lobby. E poi m´hanno riscattato i diseredati, l´animalità dei miei attori-compagni attuali". Il suo teatro è pieno di idee ma, almeno sembra, non di ideologie. Una scelta? "Io non sono ideologico. Bertinotti m´ha chiamato a un convegno e m´ha invitato a dire quello che volevo. Ho parlato di spiritualità. Bisogna esprimere qualcosa che appartenga agli altri. Il tuo "io" deve comprendere un "io" più grande. Senza investire la categoria del popolare, che è pericolosa, commerciale. Mi avevano detto che a Berlino il pubblico sarebbe stato refrattario a Urlo, e io per risposta ho calcato sulla poesia che dedico a mia madre, toccando la segretezza, l´anima di molti". Paure? "Quella della morte. Me la sono portata appresso a lungo. Poi me ne sono affrancato, ne sono scappato via. Sono andato a Sarajevo, in Palestina, mi sono buttato in zone dove si crepa. E sono volato. Il fatto è che la nostra società s´è dimenticata della morte". Esiste una paura dei sentimenti? "Il teatro ha di bello che investe dalla punta dei piedi alla testa. I sentimenti prendono solo la testa, ti ci perdi, diventi bambino, procedi nel banale e nel mostruoso. Io sono Gemelli, voglio tutto doppio... Ho relazioni con quadri e statue di Cristo, con Zappa e Beethoven, con certe parole di Shakespeare che sento fraterne, con Pasolini, con Rimbaud". Rodolfo Di Giammarco.