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 2005  aprile 21 Giovedì calendario

Giorgio Caproni, Panorama, 21 aprile 2005 La poesia più famosa di Giorgio Caproni si intitola Preghiera, ed è dedicata ad Annina, sua madre

Giorgio Caproni, Panorama, 21 aprile 2005 La poesia più famosa di Giorgio Caproni si intitola Preghiera, ed è dedicata ad Annina, sua madre. Ve la copio: "Anima mia, leggera/ va’ a Livorno, ti prego./ E con la tua candela/ timida, di nottetempo/ fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,/ perlustra e scruta, e scrivi/ se per caso Anna Picchi/ è ancor viva tra i vivi./ Proprio quest’oggi torno/ deluso, da Livorno./ Ma tu, tanto più netta/ di me, la camicetta/ ricorderai, e il rubino/ di sangue, sul serpentino/ d’oro che lei portava/ sul petto, dove s’appannava./ Anima mia, sii brava/ e va’ in cerca di lei./ Tu sai cosa darei/ se la incontrassi per strada". Caproni è, fra i poeti nostri contemporanei (è morto nel 1990), uno dei più amati: e meriterebbe di esserlo ancora di più. Era nato a Livorno, vissuto a Genova, poi a Roma, in quel Monteverde dai bei nomi, via dei Quattro Venti, di Donna Olimpia. Fece, per dar da vivere alla famìglia, il maestro di scuola. Ho ricevuto la trascrizione di un incontro fra la figlia di Caproni, Silvana, e gli alunni di tre scuole romane: il liceo classico Montale, il Liceo Tecnologico, il tecnico Ferraris. Mi è piaciuta molto e ne traggo qualche passo per voi. "Non sono capace di parlare di mio padre senza piangere" avverte Silvana "nonostante io sia oggi una signora anziana". Non parlava in famiglia, dice, della propria attività di poeta, e i figli piccoli, lei e suo fratello, pensavano che se ne vergognasse. Perché a quel tempo girava per le strade di Monteverde un matto barbone, detto Giovanni il poeta, sempre pieno di fogli, ma soprattutto impressionante perché andava dal macellaio di via Carini, comprava delle polpette di grasso e le mangiava crude sui due piedi. Sicché ai bambini, che seguivano Giovanni affascinati e raccapricciati, l’idea che esser poeti desse in quella mania carnivora suggeriva di negare, quando si chiedeva loro che cosa facesse il loro padre. "Il maestro". E se si insisteva: "Ma non scrive poesie?". "No, no, non fa il poeta". E una volta che la professoressa di lettere del fratello di Silvana, che poi era la moglie di Attilio Bertolucci, il famoso poeta anche lui, lesse il nome e chiese: "Ma tu sei figlio di Giorgio Caproni?", il ragazzo, benché fosse già in quarta ginnasio, rispose: "No, no, io non l’ho mai sentito nominare". E la professoressa telefonò a casa: "Gíorgio, guarda che tuo figlio ti rinnega ... ". A 15 anni, un po’ perché aveva 15 anni, un po’ per fare di testa sua, Silvana leggeva Intimità, Confidenze. Giorgio non la rimproverava, ma poi diceva offeso a sua moglie: "Saai, che vuoooi, qui c’è geente di livello assai baaasso, gente che legge le novellette d’amoooore, perché saai, loro sono innamoraaati...". Silvana diventava una belva, lo assaltava: " Tu lo dìci per me! ". Lui non si scomponeva, diceva: " Perché, tu le leggi? ". " Le leggo, le leggo ". Silvana ricorda di averlo sentito parlare delle proprie poesie solo un paio di volte. La prima per dire che alla sua morte tutto sarebbe andato perduto, e che aveva due figli, ma non ci poteva contare: e loro avevano già cinquant’anni, e si offesero molto. La seconda per dire: "Vedi, Silvana, morirei contento se nella mia vita avessi scritto un solo verso, ma che sia poesia ". Fino alla fine, dice lei, era convinto che tutto dovesse ancora essere verificato. "C’è un verso in una poesia postuma.- "Gíorgio non ti fidare, è ancora tutto da verifìcare"". "Era molto riservato, quando finiva alla sua piccola scrivania metteva tutto a posto, i fogli sparivano nei cassetti, metteva un foglio bianco nella Olivetti, ce l’abbiamo ancora, c’era uno spago per tirare il carrello con un peso perché era scassato. Lui ogni tanto partiva per corso Vittorio dove c’era uno che aggiustava quelle macchine. Ho visto ora che al suo posto hanno aperto un ristorante vietnamita". Silvana ha riscattato in morte quel pudore che non li lasciò mai in vita. "Ho lavorato sette anni all’archivio di mio padre per fare fotocopie, dividere le carte su cui scriveva: scriveva dappertutto tante poesie che poi sono diventate definitive nei Meridiani ". Anche fuori casa le cose non erano andate diversamente, nemmeno quando la fama era arrivata, e la candidatura al Nobel. "Candidati al premio Nobel siamo tutti" diceva. Al suo funerale non c’era neanche un’autorità, Caproni veniva da una famiglia di musicisti, aveva studiato al conservatorio e suonava il violino. "Diceva sempre che l’aver studiato musica gli aveva dato la possibilità di comporre versi". Ma smise di suonare, e in casa credevano che non l’avesse più fatto, e scoprirono poi che suonava Paganini a scuola, per i suoi scolaretti, di nascosto del direttore. A volte pregava, quando nessuno lo vedeva. Diceva: "lo prego non perché Dio esiste, ma perché Dio esista". Il suo grande amico era Bertolucci, e poi Vittorio Sereni, Mario Luzi, Giovanni Giudici, e Pier Paolo Pasolini. Pasolini, appena arrivato a Roma, era così povero che girava con le scarpe di Caproni, già strarisuolate. I poeti della generazione precedente erano più gelosi e invidiosi gli uni degli altri. Giuseppe Ungaretti non sopportava che Salvatore Quasimodo avesse vinto il Nobel, e una volta voleva fumare e chiese a Caproni: "Hai dei cerini?" e Caproni, che pure era il più buono degli uomini, non resistette e rispose: "Ho gli svedesi". E Ungaretti andò su tutte le furie. Parecchie cose di Caproni le sapevo già. Di sua figlia Silvana le ho imparate ora, e mi ha fatto piacere. Adriano Sofri