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 2005  aprile 15 Venerdì calendario

Miseria e nobiltà, La Repubblica, 15 aprile 2005 Fino a pochi giorni fa, non avevo mai letto uno dei capolavori della letteratura italiana del diciannovesimo secolo: Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta (1887)

Miseria e nobiltà, La Repubblica, 15 aprile 2005 Fino a pochi giorni fa, non avevo mai letto uno dei capolavori della letteratura italiana del diciannovesimo secolo: Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta (1887). Ne conoscevo qualche modesta esecuzione teatrale, come quella di Eduardo de Filippo; o il lieve, incantevole rifacimento gioioso di Totò, dove la miseria e la grandezza di Scarpetta vanno perduti. L´ho letto per caso. E spero che a moltissimi accada come a me: trovare per caso Miseria e nobiltà; perché il caso è il miglior aiuto per penetrare in uno dei testi maggiori del teatro italiano, dove, senza che Scarpetta lo sapesse, l´eco di Aristofane e di Plauto, dello Shakespeare e del Molière farseschi si insinua nella Napoli popolana, mentre sullo sfondo è ancora vivo il panorama barocco del Racconto dei Racconti di Giambattista Basile. Alle spalle di Miseria e nobiltà c´è un mondo glorioso. Una volta, al tempo delle favole, o soltanto al principio del diciannovesimo secolo, due figure dominavano la terra: il Salassatore e lo Scrittore di Lettere. L´antica medicina insegnava che c´era un solo rimedio contro la morte: il SALASSO. Chi veniva salassato, salassato e poi ancora salassato, non moriva più: perché tutti i mali del corpo e dell´animo dipendono dalla tumultuosa e luttuosa sovrabbondanza del sangue. Poi, non si sa perché, non si sa quando, i medici, "li miedece", si sono affacciati sulla terra, proscrivendo il salasso. Così la morte è entrata sulla scena: tutti muoiono improvvisamente dappertutto: ogni ora, ogni istante: a Napoli, a Castellamare, a Sorrento, ad Amalfi; e certo anche a Roma e a Palermo e a Milano. "So´ state li miedece che hanno rovinato l´arte nostra! Non più salassi, non più salassi, non vi togliete sangue!" dice Pascale, che eleva un feroce e furibondo inno alla morte che si è impadronita del mondo. "Si se salassavene tutte, nun murevano". Non si sa dove finiremo: questo pesante, greve eccesso di sangue riempie le vene, le teste, i ventri, le gambe, diffondendo il disastro universale. E, a questa prospettiva, Pascale esulta: "io quanno sente na morte de subito, ah, me recreo tutto quanto!". Insieme al Salassatore, è scomparsa la figura gemella, legata a lui da una segreta affinità e da una solida amicizia. Mentre i Salassatori tenevano in vita cavando sangue, gli Scrivani Pubblici, sotto le arcate del teatro San Carlo, scrivevano lettere per gli analfabeti: o forse più che lettere, poemi epici, epitalami, cantate, sonetti, romanzi in versi. Era un´arte difficilissima, protetta benignamente dallo Stato: per diventare veri scrivani, ci voleva l´esame di lingua italiana, lingua francese e calligrafia - squisita calligrafia, con svolazzi, lettere piene, lettere tonde, sottilissimi fili e raccordi e fantasie d´inchiostro. Ora quell´arte è finita. Gli ultimi artisti fanno la fame nei tuguri o strisciano sotto le arcate del San Carlo: e poi si sono aggiunte le tasse, che impediscono la libera creazione - "ogni lettera duie centesime, e n´coppa a lu foglietto nce ha da sta´ lu francobollo de nu centesimo". Non si sa come l´umanità possa sopravvivere a questo doppio affronto: li miedece e lu francobollo. Dell´antica nobiltà di Napoli, resta soltanto un segno: il San Carlo, il teatro - il cuore splendente della bellezza e della ricchezza. Scarpetta non lo descrive mai: eppure il San Carlo è il centro di tutto - le ballarinelle guadagnano moltissimo, anche 5000 o 6000 lire la stagione, i marchesi vecchi e giovani le corteggiano, i padri ricchi preparano per loro i più bei festoni fioriti della riviera, il pubblico le applaude, le domestiche le servono come dee, - e poi ci sono i ciabattini che passano la parte più preziosa del loro tempo a "fa´ le scarpine de raso a tutte le ballarinole". [*** ] La miseria della Napoli di Scarpetta è terribile: nessun narratore del tempo aveva rappresentato una tenebra così atroce, questo luogo di "surece e di scarafune", sorci e scarafaggi. Gli abiti degli antichi Salassatori e Scrivani sono stracciati: i soprabiti neri di nerofumo: le maglie smagliate, le sedie spagliate, le pignatte sopra il comò, i bacili per terra. Gli inquilini non pagano il fitto: né le spese per il guardaportone, l´acqua potabile, e il lampione. Non fanno assolutamente nulla: aprire la porta, quando suona il campanello, è un´impresa che supera le forze umane. E poi tutti questi "surece e scarafune" sono avvinti dalla forza tremenda dell´odio, che avvolge come un nero catrame specialmente le donne. Mai un gesto di delicatezza o di gentilezza o di tenerezza: solo odio tra poveri. Qualcuno, a volte, sogna la salvezza: l´agenzia dei pegni, che sta vicino a tutte le case. Ma è un delirio: perché Pascale e Felice, Concetta e Luisella e Pupella sognano di trasformare cappotti e vestiti in maccarune e mozzarelle e alici; ma i cappotti e i vestiti esistono soltanto nell´immaginazione, armadi e cassetti sono disperatamente vuoti, e mai un cappotto inesistente produrrà il miracolo di una mozzarella o di una salsiccia. In quel luogo vuoto, qualcosa esiste: la fame, anzi la famma - come dice Scarpetta - questa passione spaventosa. In Miseria e Nobiltà, non appare nessun sentimento: non c´è né l´amore, né la tenerezza, né il sentimento materno o paterno, né la vanità, né l´orgoglio; oppure sono falsi. Tutte le passioni del mondo si sono concentrate in una sola: la famma, che assume dimensioni paurose, come nemmeno nella più sinistra letteratura picaresca spagnola. L´uomo o la donna o il bambino hanno fame, e per fame svengono, cascano, impallidiscono e ripetono: "Io me more de famma". Travolti da quest´unico desiderio, gli occhi lividi di sogni, enumerano uno dopo l´altro i cibi che non mangeranno mai: due cascitielle, quattro pizze fritte, nu soldo de sciuscielle, li maccaruncelle, lu zucchillo, mezzo chilo de saciccia, na buatta de pomiodoro, diece ova, mezzo chilo de muzarella, nu panetto de burro fresco, doie palate de pane, due litre de vino. Sono cibi inesistenti, creati dall´immaginazione: non ci sono né cascitielle né muzarella: eppure l´immensa fantasia della fame fa sì che cascitielle e sciuscelle e diece ova siano qui, sulla scena, davanti ai personaggi che li vedono, li odorano, li palpano, li gustano senza mangiarli; e anche noi, centovent´anni dopo, li vediamo, li odoriamo, perché la fame anzi la famma possedeva la stessa forza visionaria di Dante e di Shakespeare. [***] Poi arrivano i nobili. In primo luogo, ci sono quelli falsi, i falsi cavalieri ed eccellenze, come don Gaetano Semmolone, ex-cuoco, che non si sa come ha ereditato un vasto patrimonio da un lord inglese. E´ una parte bellissima: Gaetano inventa baldacchini di fiori, ha un giardino perennemente illuminato, e siccome vuole ostentare il suo grandioso servizio di dodici piatti e scodelle, ha bisogno di dodici invitati, che gli mancano sempre. "Lu mjedeco de lu primmu piano.. non po´ venì, perché è vigilia e mangia pane e mellone": "l´architetto del terzo piano non può venire perché la moglie ha mal di denti". Ha soltanto sette invitati, "ma duodece era meglio, tengo lu servizio completo". Alla fine, per realizzare il sogno del cuoco, arrivano i falsi nobili: i miserabili sontuosamente travestiti. Ma Pascale, Felice, Concetta e Pupella non sono dei falsi nobili; sono dei nobili verissimi, capaci di una prodigiosa recitazione, eredi dei nobili di Saint-Simon. Così si scatena la meravigliosa insensatezza - la follia a cui tutta la storia del teatro e di Napoli mirano. Ogni momento, si sfiora la demenza clinica. Le battute vengono ripetute fino all´ossessione, poiché la ripetizione ossessiva è il fiore del comico. E poi ci sono le grandi invenzioni farsesche: gli equivoci, i qui pro quo, le incomprensioni, le scemenze, che nascono dal ventre generativo della lingua. Ogni principio di realtà e di razionalità viene abbandonato. Si salta a piè pari nell´assoluta demenza del riso. "Ieri sera - racconta Felice Sciosciamocca travestito da principe di Casador, a proposito della moglie immaginaria - sono arrivati quattro medici da Londra e due dall´America e, dopo di averla osservata, dissero: "Caro principe, non ci pensare più a tua moglie, essa non tiene più né polmone né fegato. Tiene sì nu poco de fegato, ma è poco, troppo poco!"... Dissero: "Se la milza se mantiene ancora fresca, potrà vivere un´altra settimana, ma è difficile, perché la milza sta già per putrefarsi"". Eduardo Scarpetta scrisse un modesto libro autobiografico, Cinquant´anni di palcoscenico, pieno di rancori e furori di capocomico. Ma esso contiene una pagina bellissima, che rivela come Scarpetta avesse compreso il delirio vertiginoso del riso. Era al San Carlino, ed assisteva alle Cento disgrazie di Pulcinella, nell´interpretazione di Antonio Petito. "Non ho mai più riso tanto in vita mia! Quel piccolo teatro sembrava trasformato in una gabbia di matti dove l´ilarità assumeva forme strane e contagiose, ed il riso diventava spasimo, convulsione, sussulto. Si rideva fino alle lacrime. E si rideva e si piangeva in platea e nel loggione, nei palchi e nelle poltrone, invocando invano un istante di tregua, tenendosi i fianchi indolenziti, asciugandosi gli occhi lacrimosi, sussultando e gesticolando come ubriacati e storditi dal torrente di comicità, che straripava dal piccolo palcoscenico di legno facendo tremare dalle fondamenta il teatro decrepito e minuscolo". Di rado parole così innamorate e precise furono dedicate al dio Riso. Pietro Citati