17 aprile 2005
Tags : Rafael. Nadjari
Nadjari Rafael
• Nato a Marsiglia (Francia) nel 1971. Regista. Nel ’97 si trasferisce negli Stati uniti. Insieme a un gruppo di amici e complici, tecnici, attori, produttori etc realizza tutti i suoi film. Il primo lungometraggio - nella sua filmografia troviamo anche un cortometraggio, Snow Bird (1998), e la sceneggiatura di Le P’tit Bleu, (1999) film per la televisione realizzato da François Vautier con nel cast Robert Kramer -The Shade (1999) girato a New York, viene presentato al festival di Cannes (Certain regard). Dove ritroviamo il regista con l’ultimo capitolo della sua ”trilogia” newyorkese, Apartment#5 (2002) alla Quinzaine. Nel mezzo c’è il film che lo lancia, girato in 15 giorni e in super8 I Am Josh Polonski’s Brother. Con Avanim Nadjari arriva in Israele, seguendo -come ha dichiarato lui stesso - un’idea di cinema internazionale e universale. «Nelle biografie di Raphael Nadjari la parola che torna più spesso è nomadismo. Nomade del resto è una definizione che racconta senza schematizzare questo cineasta, sia nell’immaginario che nella vita, e soprattutto in quell’irrequietezza divenuta forma e politica artistica di tutti i suoi film. Leggiamo (in un’intervista curata da Ariel Schweitzer, critico attento delle nuove tensioni nel cinema d’Israele): ”essere nomade fa parte delle mie origini francesi, cosmopolite, ebraiche e della mia ricerca personale. una dimensione legata all’idea dell’esilio come possibilità di conoscenza. Girando Avanim ho provato per la prima volta un sentimento di vicinanza profonda al mondo, alla terra e dunque il mio conflitto con l’identità si è moltiplicato per mille. Il che è meraviglioso”. E non potrebbe essere altrimenti per un artista nato in Francia, partito a poco più che vent’anni per gli Stati uniti dove comincia a fare cinema - ma prima c’è un lavoro sulla scrittura e sulla pittura - liberando nei suoi film personalissime passioni e visioni cinematografiche (a cominciare dal noir americano), infine approdato in Israele, a Tel Aviv [...] un’idea di indipendenza che è non solo basso costo e velocità di tempi ma anche stesso gruppo di lavoro, amici e complici, il gusto osservare a distanza ravvicinata realtà e persone rifiutando le ”imposizioni” della sceneggiatura per l’improvvisazione. [...] ”[...] New York era per me un luogo molto legato alla cultura ebraica, in cui ciascuno può essere se stesso senza avere bisogno di offrire giustificazioni. Ho conosciuto lì diversi israeliani che mi hanno fatto molto riflettere sulla nozione di ’terra promessa’. Hanno lasciato il loro paese per gli Stati uniti, che vedono oggi come una specie di Eldorado, dove però molti hanno vissuto in modo traumatizzante una vera e propria perdita di identità. [...] Ci sono anche altre cose che hanno sempre origine nel mio cinema. I am Josh Polonski’s brother era una riflessione sul noir americano degli anni Cinquanta, un cinema che è sparito a poco a poco e che trovo molto toccante. Ho sempre lavorato partendo da memorie cinematografiche per porre delle questioni in modo più frontale. Il cinema per me si scompone e si ricompone. fatto in modo da coniugare una piccola famiglia e un modo di lavorare positivamente. La cosa importante è lasciare aperte le domande, far sì che esse stesse si pongano degli interrogativi. Non mi interessano le posizioni ideologiche o manicheiste. Il ragionamento deve essere piano. [...] non lavoro su una sceneggiatura e preferisco l’improvvisazione. La sceneggiatura si pone come una documentazione, non lascia spazio alla conoscenza, all’incontro con i diversi posti, atmosfere, persone. Il punto di vista diviene la nostra opinione. Qui c’è una domanda soggettiva che coincide con lo sguardo della donna. Invece di giudicare cerco di aprire delle domande in modo profondo, di conoscere... Nella sceneggiatura spesso prevale l’ideologia del vero, di una storia che vuole esprimere il tutto, che non può essere altrimenti. Per questo preferisco le piccole storie, la dimensione intima e non la cosmogonia. Ripeto, l’idelogia non mi interessa. Vorrei al contrario che i miei film facciano pensare, che riflettano un approccio ’innocente’ [...] L’attore nei miei film ha molta libertà ma dentro a un controllo minuzioso. A volte capita di entrare in conflitto anche perché visto che i dialoghi non sono scritti, sono loro a inventarli sul set e per questo deve esserci una totale fiducia reciproca. [...] Mi viene in mente Cassavetes, anche se lui arriva da una grande tradizione di cinema indipendente newyorkese, da cui ho imparato a lavorare con lo stesso gruppo e poi la serie ’B’ americana che mi ha insegnato a girare con pochi soldi, velocemente, seguendo un’urgenza» (Cristina Piccino, ”il manifesto” 16/4/2005).