Varie, 16 aprile 2005
TUTINO Saverio
TUTINO Saverio Milano 7 luglio 1923, Roma 28 novembre 2011. Giornalista • «Lo strano e affascinante caso di Saverio Tutino, sta nell’avere un curriculum da eroe nazional-popolare: commissario di una brigata Garibaldi durante la resistenza nelle montagne del Piemonte, vivo per miracolo dopo una retata mentre la maggior parte dei suoi era stata trucidata o impiccata, esotico giornalista internazionale in una Cuba ancora frequentata dal Che, prima che Fidel lo mandasse a perdersi nella giungla. Una sana indipendenza dal partito che non ha mai significato troppo fronda. Molta pena per la sofferenza vera, alti livelli di probità, indifferenza alla ricchezza, una straordinaria propensione a tirarla alla lunga nei caffè e nei salotti lombardi con compañeros e soprattutto compañeras (è così immortalato, con il fazzoletto rosso al collo e l’eloquio interminabile, negli anni del dopoguerra, da Oreste Del Buono, suo cognato, in I peggiori anni della nostra vita) e più tardi instancabile forsennato dietrista che vedeva gli affari internazionali come una messa in scena di imperialismi assassini, Trilateral e Gladi assortiti, perché nulla era come appariva e a molti di noi sembrava così esagerato, con questa ossessione di servizi segreti che lo sfottevamo un poco. Con il tempo si è visto che aveva ragione lui e non esagerava affatto. Poi, di tanto in tanto e di colpo, spariva rintanandosi nella sua casetta ex scuola in Toscana o nelle due camere e cucina a Trastevere, così povere e dignitose che le preferiva a quelle di un palazzo principesco. E si metteva a scrivere delicati ricordi, in una prosa che era come mossa da un’ansia intellettuale, così fine e a volte angosciata, non ponendo mai certezze, considerate quasi una volgarità, ma dubbi. Rivoltandosi tra angosce esistenziali reali, e amori che davano all’impegno politico quel fuego che era poi il fine non tanto nascosto. Insomma, se fosse vivo Togliatti nelle vesti di Roderigo di Castiglia, si sarebbe meritata un’accusa di decadenza, che nel mondo comunista corrispondeva a qualcosa di simile alla lapidazione nella Bibbia. Non vorrei fare un paragone troppo altisonante. Ma per Tutino essere di sinistra ha avuto lo stesso valore che essere cattolici nei romanzi di Graham Greene: la chiave non solo interpretativa delle situazioni ma dei personaggi, che agiscono di conseguenza (a volte troppo di conseguenza). Una sinistra politica naturalmente non vissuta nei palazzi, quello era l’ultimo luogo dove Saverio avrebbe mai messo piede, ma nei posti veri della vita consociata, nei caffè o nelle case, eventualmente nelle piazze e nei raduni, nelle boscaglie e per la strada. Una politica che si confondeva con le passioni, che andava cantata, e che andava condivisa con una donna. E tutto questo, intendo questo intreccio, gli sembrava di averlo trovato in America Latina. “Che ci vado a fare” aveva risposto una volta al suo direttore che lo voleva mandare a scrivere dal Medio Oriente “laggiù il vino è proibito e le donne sono velate”. Mentre nelle Americhe australi ti accolgono con un tale calore che all’inizio credi che da queste parti la politica sia simile a un tango o a una rumba. Era così preso da quella vita che Giancarlo Pajetta una volta commentò laconicamente: “Invece di essere il nostro agente all’Avana, era l’agente dell’Avana nell’‘Unità’”. Da giovane Saverio è sopravvissuto alle retate dei tedeschi. Da uomo maturo è sopravvissuto ai ripetuti cedimenti delle coronarie. [...] Uno dei pochissimi scrittori [...] capace di eseguire il volteggio, come un triplice salto mortale, senza cadere e fracassarsi le ossa, letteralmente parlando. E naturalmente parla della sua compagna, la vera fortuna della sua vita, la scultrice Gloria Argeles, come ne potrebbe parlare un innamorato che ha letto il Cyrano e vorrebbe imitarlo ma conosce i suoi limiti. [...]» (Stefano Malatesta, “la Repubblica” 16/4/2005).