Varie, 16 aprile 2005
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Ogawa Yoko
• Okayama (Giappone) 30 marzo 1962. Scrittrice • «[...] molto amata in Francia. [...] il ritratto sociale è rarefatto, quasi astratto. Sono assenti quelle istituzioni (la famiglia, la scuola, l’azienda) che siamo abituati a considerare come i luoghi della coesione sociale giapponese: qui ci sono individui, talmente soli e spersonalizzati e concentrati nelle loro esplorazioni erotiche che non hanno neppure un nome. Hotel Iris è ambientato in una cittadina balneare che immaginiamo sulla costa giapponese, ma potrebbe essere ovunque. La protagonista ha un nome straniero, Mari. È una Cenerentola diciassettenne, imprigionata nel fatiscente alberghetto di famiglia da una madre opprimente che ne soffoca la vitalità: soffocherà anche, fisicamente, nei giochi erotici che le impone un uomo quasi anziano, conosciuto soltanto come “il traduttore” perché per mestiere traduce dal russo, uno che entra in scena scaraventando una puttana giù per le scale dell’albergo e che ha intorno a sé l’alone fosco di una moglie morta strangolata. [...] Hotel Iris [...] fotografa i corpi frammento su frammento, senza che l’immagine si ricomponga mai e quindi senza che l’erotismo superi mai l’horror vacui dell’umiliazione sadomaso. Quando la diciassettenne Mari segue il vecchio vizioso nella sua casa maniacalmente ordinata, vede di lui soltanto dettagli: l’orecchio raggrinzito dall’età, i piedi rugosi, le mani coperte di macchie che stringono i lacci intorno ai suoi seni, al suo collo. C’è un’atmosfera decadente, giostre deserte e gelati liquefatti, turisti nervosi, una morìa di pesci che restano a putrefarsi per le strade della cittadina, con le automobili che li spiaccicano e schizzano fuori le interiora: una pioggia animalesca, presagio di disgrazia, mentre le rane che piovevano nel film Magnolia stralunavano il mondo ma con allegria. Con automatismo occidentale, scatta una facile lettura pseudo-psicanalitica di Hotel Iris: il padre di Mari è morto ammazzato, lei si accompagna al primo che capita perché è talmente sola e disamata che non ha mai neanche “camminato accanto a qualcuno”, alla meschina brutalità della madre lei reagisce sottomettendosi a ben altra brutalità, gli ordini della madre si capovolgono negli ordini erotizzanti (“Spogliati”, mentre lui non si denuda mai) dell’anziano amante, e i capelli allisciati dalla madre vengono rapati con le stesse forbici affilate che lui le ha passato fra le cosce. Invece (e per fortuna) non c’è psicologia, né psicologismo, nella scrittura calligrafica di Yoko Ogawa. È talmente virtuosistica da sembrare virtuosa, nonostante la ferocia del sesso di quella coppia perfino timida e trepidante, quando non è occupata con lame e lacci e museruole. Ecco il giro di vite dell’erotismo: Yoko Ogawa è, nei confronti dei suoi personaggi, esattamente come il traduttore è con la fanciulla: “Sapeva essere violento senza perdere l’eleganza; anzi, quanto più mi precipitava nella vergogna, tanto più i suoi modi si facevano raffinati”. [...]» (Giovanna Zucconi, “L’Espresso” 21/4/2005).