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 2005  aprile 16 Sabato calendario

LA PORTA Filippo

LA PORTA Filippo Roma 3 settembre 1952. Critico letterario. Scrive su “l’Unità”, “D la Repubblica delle Donne”, “il manifesto” e numerose altre testate. È autore de La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo (Bollati Boringhieri, 1995), Non c’è problema. Divagazioni morali su modi di dire e frasi fatte (1997), a cui seguono Manuale di scrittura creativa (1999) e Narratori di un sud disperso. Cantastorie in un mondo senza storie (2000). Ha curato Racconti italiani d’oggi (1997) e, insieme ad Alessandro Carrera, Il dovere della felicità (2000). «Quella di Filippo La Porta è critica “allargata”: parte dalla letteratura e arriva alla politica, alla società, e viceversa. Il suo non è mai un discorso “specialistico”, ben circoscritto; il suo orizzonte è sempre allargato, anzitutto alle tematiche socio-politiche della contemporaneità. [...] riflette su “realtà” ed “esperienza” utilizzando materiali sociali e comportamentali (parla, ad esempio, della “scomparsa delle rughe”, sulla falsariga della “scomparsa delle lucciole” di pasoliniana memoria), e soprattutto materiali letterari: dalla nuovissima narrativa italiana alla fantascienza, dalla letteratura americana contemporanea ai classici come Conrad [...]. In ambito letterario La Porta non disdegna la polemica, come quando contrappone esperienze letterarie “irreversibili”, cioè esperienze che cercano radicalmente “un rapporto con la realtà” (La ragione del più forte di Andrea Carraro, Luisa e il silenzio di Claudio Piersanti, La resistenza del nuotatore di Sebastiano Nata, Attenti al cane di Angelo Ferracuti) ad esperienze “reversibili” ( Campo del sangue di Eraldo Affinati e Maggio selvaggio di Edoardo Albinati). Il grande imputato è “l’intenzionalità”, la programmazione, perché “già Montaigne, all’inizio della modernità, aveva fissato la verità - di sé, della propria esperienza - esattamente al polo opposto dell’intenzione consapevole e di ogni slancio programmatico”. [...] Quella di La Porta è, allo stesso tempo, una critica precisa alla letteratura non solo italiana e una critica alla società in cui viviamo. [...]» (Renato Minore, “Il Messaggero” 15/4/2005). «La letteratura migliore, ha scritto Thomas Pynchon, è quella che possiede “una luce di innegabile autenticità”. Contro la “scrittura creatina” (o la letteratura dopata), Filippo La Porta citava, qualche anno fa, proprio questa frase di Pynchon. [...] La Porta è tra i pochi della sua generazione che si possano chiamare davvero critici militanti: uno statuto in declino da tempo, che resiste solo in qualche solida roccaforte. Su questa strada, La Porta vanta non solo una tenace attenzione che si traduce in recensioni settimanali, ma un libro sulla Nuova narrativa italiana [...]. Con un’idea forte: che esiste, anche nel romanzo, un’“ideologia italiana intesa come attitudine al teatro (dell’esistenza) e alla messinscena, al melodramma e alla morbida contabilità (dei conflitti)”. Insomma una tendenza costante al travestimento e all’inautenticità. Detto questo, posto di fronte alla parola “impegno” La Porta esprime una sua opinione molto poco tradizionale per un uomo di sinistra che ha militato nel manifesto e che oggi si definisce un anticomunista a cui “fa ancora più orrore il capitalismo”: “Credo che l’impegno abbia ben poco a che fare con la politica. La politica è la triste malattia nazionale, la smania di schierarsi e di appartenere. In Italia conta più dove sei ‘posizionato’ (anche solo per convenienza) che quello che dici: l’impegno si risolve in topografia...”. La Porta ricorda Camus: “L’impegno non riguarda la politica ma la coscienza individuale. Per Camus l’intellettuale era un outsider, un franco tiratore libero dai gruppi organizzati o dai ricatti dei partiti. In Italia è difficile essere individui”. Ma che cosa può mai significare in letteratura essere individui? “Diceva Camus che l’impegno è il dovere di non mentire, di capire la realtà: il che non significa soltanto dire la verità ma anche non fingere di provare ciò che non si prova, cioè la smania di voler apparire radicali o mitteleuropei o politicamente corretti... Non mentire è un riconoscimento sobrio e onesto e realistico della propria condizione”. [...] Ma ci saranno pure dei narratori italiani che ci parlano della realtà così comè o che almeno ci provano. “Io tengo sempre a ricordare la vecchia distinzione di Lukács tra ideologia oggettiva e ideologia soggettiva. Non è detto che l’ideologia dell’autore corrisponda a quella delle sue opere: il collaborazionista Céline scrisse romanzi davvero sovversivi [...] Doninelli è un intellettuale cattolico, ciellino, però scrive romanzi aspri e inconciliati, mentre Benni e Baricco, che sono politicamente ultracorretti, con il cuore che batte sempre dalla parte giusta, tendono a rassicurare i loro lettori, a farli sentire più virtuosi o più intelligenti: insomma, i loro romanzi sono, tra virgolette, romanzi di destra, fingono di appartenere a una minoranza virtuosa [...] La narrativa italiana contemporanea è poco intelligente, poco impegnata a capire le cose, perché nessuno più glielo chiede. Intelligenza però non significa esibire una iperconsapevolezza né una fronte eternamente pensosa, ma riuscire a raccontare il mondo in cui viviamo. Ecco, questa intelligenza nella letteratura la trovo sempre meno [...] L’intelligenza in letteratura, secondo Trilling, nasce dalla coincidenza di due emozioni opposte. Spesso sono tentato di applicare questo schema ai narratori d’oggi [...] Dall’Illuminismo in poi l’intellettuale si è schierato dalla parte delle vittime. Oggi la pietà viene sostituita dalla solidarietà. Ma mi colpisce sempre più un fatto: che la stessa indignazione morale con cui in passato si difendevano gli oppressi viene usata oggi per fare l’apologia di ciò che comunque si afferma e si impone da solo. Vedo sociologi e antropologi che si sbracciano per difendere le nuove tecnologie, i new media, il mercato. Tutte cose che si impongono da sé. Mi pare un mutamento epocale”. E quali sono i saggisti che riescono meglio di altri a sottrarsi al “mutamento epocale”? Il nome che ricorre di più nelle parole di La Porta è quello di Nicola Chiaromonte, “il maggiore del secondo dopoguerra”, un eretico (“incastrato tra le due Chiese: Dc e Pci”) per il quale “l’impegno è più morale che politico, più concreto che ideologico, escludendo ogni appello alla dialettica della storia o ai destini del mondo: sul 68 scrisse pagine più lucide di quelle pasoliniane, ma che furono ignorate da tutti”. Chiaromonte, tra i numi tutelari, è in compagnia di Orwell e di Camus, di Silone, di Koestler e di Carlo Levi. La triade dei padri putativi o fratelli maggiori è composta da Raffaele La Capria, Cesare Garboli e Alfonso Berardinelli. Che cosa li accomuna? “Hanno uno stile molto diverso, ma che esprime nei tre casi una sovrana estraneità al potere politico o accademico e alle sue logiche. E poi il loro stile rivela una particolare qualità del pensiero, direi un’umile superbia: si mescolano agli altri, riconoscono la situazione in cui stanno, sono cittadini come gli altri ma sono anche capaci di essere individui con le loro idiosincrasie e i loro gusti non negoziabili. Il loro stile non è inquinato dal conformismo né dalla mania di essere spettacolari”. Siamo ben lontani, a quanto pare, dalla saggistica che negli anni Settanta e Ottanta si iscriveva dentro l’alveo della semiotica o dello strutturalismo e che insieme alla filologia hanno rappresentato per molti il meglio della critica italiana. “Secondo me è utile tornare a fare esperienza delle cose, nel momento in cui tutto è simulazione o copia. Per questo mi interessa poco la teoria: credo che abbia soffocato la letteratura e un approccio genuino, disarmato o avventuroso alle opere letterarie”» (Paolo Di Stefano, “Corriere della Sera” 14/9/2005).