Varie, 15 aprile 2005
ROVEREDO
ROVEREDO Pino Trieste 16 ottobre 1954. Scrittore. Famiglia di artigiani (il padre, sordomuto, era calzolaio). Prima di approdare alla scrittura ha vissuto esperienze diverse, lavorando a lungo come operaio, prima in una fabbrica specializzata in salumi insaccati, poi per un’altra, la Colombin, che produceva tappi di sughero. Scrittore e giornalista, ha al suo attivo romanzi e testi teatrali, collaborazioni con la Rai e con ”Il Piccolo” di Trieste. Fra i suoi libri ci sono Capriole in salita (1996), Una risata piena di finestre (1997), La città dei cancelli (1998), Ballando con Cecilia (2000) e Centro diurno/ Le fa male qui? (2000), tutti pubblicati dalla casa editrice triestina Lint. «In un’intensa, bellissima pagina di Capriole in salita – il libro col quale Pino Roveredo, più che esordire, è entrato di forza nella letteratura – il protagonista narratore guarda un viso amato e doloroso e dice di sapere quali rughe, su quel viso, portano la sua firma. Roveredo è un esperto dei graffiti che la vita incide, anche con sbadata crudeltà, sul volto e sul corpo degli uomini; sa di esserne vittima e colpevole, come nel caso di quelle rughe scavate da dolori di cui si riconosce in parte responsabile. La sua scrittura, nata da una radicale esperienza personale ed estranea a ogni formazione letteraria, è anche la trascrizione di quei graffiti spesso aspri, ma pure picareschi e avventurosi. Si è ripetuto tante volte, sulla scia di famose dichiarazioni di Svevo, Saba e Slataper, che la letteratura triestina è caratterizzata dall’antiletterarietà, affermazione forse valida per la grande generazione dei suoi padri fondatori, ma molto meno per gli autori venuti dopo, che si sono anzi nutriti di quella tradizione. Certo, Roveredo è realmente arrivato alla letteratura – non solo triestina – dalla vita, da una vita che ha conosciuto l’ombra, i gironi dell’autodistruzione nell’alcol, i luoghi canonici dell’emarginazione e autoemarginazione, il sottoproletariato urbano intriso di violenza, la discesa quasi voluta, ”le perdute scommesse con la solitudine, la corsa ad ostacoli presi tutti in faccia”, come scrive egli stesso. Nato nel 1954 a Trieste da una famiglia artigiana, Roveredo ha lavorato per anni come operaio, dapprima in un’industria, in un salumificio e poi in una fabbrica di tappi di sughero, ma la sua narrativa è del tutto estranea alla letteratura operaia e alla sua problematica politico sociale, alla quale egli non è certo insensibile nella sua vita e nel suo pensiero, ma che non è affatto un elemento della sua invenzione fantastica. Egli ha conosciuto pure il disordine, l’alcool, la brutale – ancorché brevissima – esperienza del carcere e dell’ospedale psichiatrico, la vitREa randagia ai margini della società, ma racconta tutto questo con pietas per se stesso e per gli altri e tuttavia senz’indulgenza e soprattutto senz’alcuna complicità per quei destini la cui tragica dimissione dall’esistenza è decisa così precocemente; destini che, com’egli ha scritto, avanzano a ritroso come gamberi verso disfatte ripetute e brucianti e perdono con dolore e compiacimento le loro battaglie prima ancora di iniziarle. Roveredo narra queste vite spezzate, voli interrotti e abbattuti da troppi sassi lanciati contro di loro, ma narra anche le bassezze e le debolezze travestite da alibi per giustificare la trasgressione. Le racconta con partecipazione e distanza, passione e ironia, con una comprensione in cui si fondono il piglio epico, l’invenzione fantastica e il giudizio morale. Come ha scritto in un eccellente saggio Riccardo Cepach, Roveredo non ha nulla da spartire con la grande tradizione trasgressiva di Kerouac e di Bukowski e con la loro visione eroico contestataria dell’ebbrezza alcolica o del disordine liberatorio: ”L’inferno dell’alcolismo viene descritto nella brutalità dei suoi devastanti effetti... Roveredo ha restituito, al di là di ogni facile mitologia, l’alcolismo a chi ne è veramente vittima”. Lo scrittore narra pure l’uscita da quei gironi, la vittoriosa battaglia contro quel buio, dal quale egli non soltanto è uscito ma aiuta, da anni, concretamente a uscire chi ne è prigioniero, in un esemplare impegno a favore delle vittime del disagio, alcolisti tossicodipendenti sieropositivi disabili assistiti dei centri d’igiene mentale carcerati immigrati. Anche di questo lavoro, che si riflette nella sua attività giornalistica, v’è nella sua opera una traccia letteraria assai discreta, aliena da ogni pathos moraleggiante e da ogni ideologia dell’impegno. Pure in questo caso, colpisce quella che Cepach chiama l’’ingenuità autentica e non artefatta” di Roveredo, una estraneità alla cultura postmoderna della citazione, che è schietta noncuranza, la semplicità di chi racconta esperienze straordinarie senza giochi intellettuali e senza ammiccamenti ad alcuna verginità culturale, ma semplicemente raccontando (e reinventando, ma sempre con una fortissima aderenza al reale) quello che gli è accaduto e costruendosi la lingua per raccontarlo, senza funambolismi verbali e senza civettare con l’elementarità e la spontaneità.Lo studioso Peter Kuon ha parlato di un linguaggio ”a volte drastico realistico, a volte affettuoso ironico, a volte comico burlesco, che consente all’autore di attraversare varie frontiere esistenziali e stilistiche”. Simbolicamente e molto concretamente la scrittura di Roveredo arriva alla carta da una peculiare fisicità, che investe il suo linguaggio originario, quello appreso dai genitori sordomuti. Egli stesso racconta [...] come, per cominciare, egli abbia imparato, prima che il movimento della voce, quello delle mani, con cui comunicavano e si esprimevano i suoi genitori. ”Il linguaggio dei gesti” – egli dice – , oltre l’attenzione assoluta dello sguardo, richiede anche la capacità di costruire il dialogo con le dita, dita che con la libertà di una fantasia possono differenziarsi nello stile fino a diventare la proprietà di un dialetto personalizzato. ”Con quell’uso, dopo che i miei cari se ne sono andati, ho iniziato a scrivere o, se vogliamo, a trasferire sulla carta il movimento delle dita”. All’inizio dunque c’è il corpo. Perfino la scrittura, il linguaggio, gli irripetibili dialetti della diversità sono, concretamente, fisicamente, corporei. Forse anche da quest’esperienza originaria, che fonde – senza che egli ne abbia esplicita consapevolezza culturale – il Logos e la carne, deriva quella familiarità con l’effimera, fragile e gloriosa carnalità della persona che caratterizza la pagina di Roveredo. Egli ha un senso forte, istintivo più che consapevole, di ciò che la Bibbia chiama ”carne” e che non indica un’insensata contrapposizione allo spirito, bensì la precaria, appassionata e indissolubile unità dell’individuo nella sua fisicità, nei suoi sentimenti, nei suoi sogni, nei suoi errori. I personaggi di Roveredo vivono spesso ai margini della vita o nell’ombra; egli ne racconta con partecipe affetto e rispetto le violenze anche brutali e le umiliazioni subite, gli sbandamenti o le canagliate ma anche il generoso e spavaldo coraggio, le piroette e i capitomboli con cui essi cercano di sfuggire alla morsa della vita, i sogni ingenui ma potenti che li portano aldilà dei confini del reale. Questa familiarità con la debolezza e insieme con la sacralità dell’esistenza è irriverente, perché non arretra dinanzi ad alcuna anche impudica o imbarazzante miseria e non s’inchina ad alcuna solennità, ma la tira giù dal piedistallo, dando del tu o anche peggio al Padreterno e mostrando i rattoppi nei calzoni o i buchi nelle calze della vita. Ma tutti questi personaggi [...] sono trattati con un profondo rispetto, siano essi gaglioffi o cuori semplici ingannati, angeli o magnaccia, ladruncoli o degenti al manicomio; talvolta, com’è giusto, l’autore li prende per il bavero ma ciò non diminuisce l’amore e il rispetto nei loro sguardi. Parlando di Singer Henry Miller dice che, si tratti di una prostituta o di un santo, i suoi personaggi sono sempre immersi in un’aura di santità e di rispetto; fatte le debite proporzioni di grandezza, questo vale anche per la scalcagnata ma indomita combriccola delle figure di Roveredo. Il rispetto – che Kant, non credo letto da Roveredo, pone quale base e premessa d’ogni virtù – è una modalità essenziale di Roveredo nel suo porsi dinanzi all’esistenza e al racconto dell’esistenza degli uomini; è una chiave della sua umanità, del suo senso della calda vita. Perfino quelle categorie morali apparentemente ingenue della buona e cattiva educazione [...] rientrano in questo senso di rispetto, che presuppone un altrettanto profondo senso dell’ordine. Applicate all’universo dell’emarginazione, subita o voluta, o a situazioni disordinate, irregolari, truffaldine o indecorose, tali categorie risultano comiche e mettono in luce la grottesca, spesso dolorosa comicità dell’esistenza, ma quel riso che talora avvolge le figure e le vicende di Roveredo è una demistificazione di tanti falsi idoli e dunque una liberazione e una premessa di libertà, è una fraterna partecipazione a quella buffa goffaggine dell’esistenza umana che significa anche capacità di amarla e di trovarne, perfino nella tragedia farsesca e dunque ancora più tragica, una segreta armonia. L’odissea dei personaggi di Roveredo è una Via Crucis dolorosa, spesso ridicola o tragicomica, ancor più spesso abusiva e illecita, compresa a fondo ma anche giudicata nei suoi errori e debiti da pagare. Il mondo dello scrittore sembra periferico, provinciale e piccolo, ma si dilata fino a combaciare col mondo tout court ; fra l’osteria del rione, il manicomio, il carcere o il monolocale dei sobborghi si apre un intero universo, un’arca di Noè in cui c’è posto per tutti [...]» (dall’introduzione di Claudio Magris alla raccolta di racconti M andami a dire.., ”Corriere della Sera” 15/4/2005).