L’Espresso 14/04/2005, Giorgio Ruffolo, 14 aprile 2005
La differenza tra l’economia americana e quella europea è la stessa che passa tra caffé italiano e caffé americano Euro, L’Espresso 14/04/2005
La differenza tra l’economia americana e quella europea è la stessa che passa tra caffé italiano e caffé americano Euro, L’Espresso 14/04/2005. Per rappresentare le differenze tra il modello americano e quello europeo il direttore del Remarque Institute della New School University di New York, Tony Judt, è ricorso a una metafora: il caffè lungo e il caffè ristretto. La tazza di caffè americana è vasta, diluita a piacere (insomma, flessibile) e prodotta in grandi quantità insapori e bollenti; è economicamente competitiva e indefinitamente riempibile: "La tecnica più democratica di introdurre caffeina a volontà in un essere umano" . La tazzina di un caffè all’italiana è oltraggiosamente cara, sprezzantemente ignara delle esigenze di competitività del mercato, annusata e assaporata con arìstocratica lentezza, non con bulimia trangugiatoria. Poste così le cose, i due modelli non presentano problemi, se non degustibus i quali, com’è ben noto, non sono disputandi. I problemi nascono quando si vuole convincere, per esempio, gli italiani a bere il caffè americano. Il successo dell’economia americana in termini di crescita, flessibilità e produttività è stato riproposto costantemente all’Europa dall’establishment del pensiero unico come modello da adottare per liberare l’economia europea dalla sclerosi nella quale sarebbe caduta. Da qualche tempo, però, una corrente eretica di economisti e sociologi, quasi tutti americani, ha sollevato il dubbio scandaloso che la performance europea, non soltanto non sia scadente, ma costituisca un modello vincente rispetto a quella americana. Vincente da tre punti di vista: economico, sociale, politico. L’economia, anzitutto. La vulgata neo liberista presenta un’economia americana che gira a tutto regime, in termini di ricerca, produzione, produttività, occupazione, rispetto a un’economia europea che arranca, appesantita dalle rigidità del mercato del lavoro e dall’onere di prestazioni sociali. Ma le cose non stanno così. Pur non avendo alle spalle l’enorme sostegno della spesa militare americana, l’Europa registra successi brillanti sia nel campo della ricerca applicata (basta citare l’impresa del Titano nel campo aerospaziale) sia in quello della ricerca pura: basta accennare al lavoro quarantennale del Cern: l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare. Le sue grandi imprese si battono ad armi pari, e spesso vittoriosamente, con le grandi americane. L’esempio di Airbus è significativo: nel 2004 ha superato il rivale Boeing, con 320 aerei venduti contro 285. E poi c’è l’Airbus 380, il più grande aereo del mondo, capace di trasportare 555 passeggeri: 30 per cento in più del Boeing 747, uno spazio più ampio del 50 per cento, prezzi inferiori del 15-20 per cento. In termini di produttività media, il divario che esisteva tra America ed Europa nell’immediato dopoguerra è stato annullato alla fine del secolo. Nel 1960 l’economia americana produceva il doppio dei beni e servizi per ora lavorata rispetto a Francia e Gran Bretagna. Nel 2002 l’Europa aveva recuperato quasi tutto il terreno: 97 per cento del livello di produttività media Usa. Fra il 1950 e il 1973 la crescita della produttività europea è stata del 4,4 per cento contro il 2,68 per cento americano. Fra il 1973 e il 2000, dei 2,4 per cento rispetto all’1,37 americano. Ma allora, perché il livello della produzione europea resta inferiore del 30 per cento a quello Usa? Ci sono due risposte. La prima: perché la durata del lavoro, in Europa, è minore. Un americano lavora in media per 1.877 ore all’anno, un europeo per 1.542. Si tratta di una scelta, tra avere più quattrini o più tempo libero. Non c’è ragione per contestarla, né economicamente né moralmente (è difficile che, in punto di morte, uno si penta di non aver passato più tempo in ufficio). La seconda risposta è l’effetto combinato di una politica monetaria europea restrittiva e di una americana espansiva. La prima combatte un’inflazione che non c’è più. L’altra, una depressione da scongiurare. Risultato: mentre la domanda interna dell’Europa langue, quella americana sale molto al di là delle possibilità dell’offerta interna, alimentando un disavanzo mostruoso, che sfiora 1500 miliardi di dollari. Finora le autorità Usa non si sono preoccupate di questo squilibrio. 1 dollari usciti per pagare le importazioni in eccesso sono ritornati sotto forma di capitali sottoscritti dai risparmiatori del resto dei mondo, soprattutto da quelli asiatici, per i quali non c’erano alternative migliori di quelle offerte da Wall Street. Gli americani potevano staccare assegni, sicuri che nessuno li avrebbe portati all’incasso. Ne è risultata una condizione stravagante. Gli Usa hanno rastrellato l’ottanta per cento del risparmio mondiale. Il paese più ricco del mondo è anche il più indebitato con il mondo. Un piano Marshall al contrario. Il dollaro restava forte, senza alternative. Ma da due anni non è più così. Il fatto è che oggi l’alternativa c’è. Si chiama Euro. E il dollaro ha cominciato a scivolare, rispetto all’Euro, fino a perdere poco meno di un terzo del suo valore. Finora, le autorità monetarie americane non hanno fatto una piega. Forse sono convinte che i vantaggi che l’America trae da questa svalutazione, e cioè l’aumento delle esportazioni, a danno della competitività degli altri paesi, riassorbiranno il disavanzo, prima che la minaccia di una fuga dal dollaro, si concretizzi. Ma molti osservatori non la pensano così. Quale che possa essere l’esito di questa scommessa rischiosissima, di una cosa possiamo essere certi. La conclamata superiorità del modello economico americano, in termini di crescita, sul modello europeo dipende molto più dalla sregolatezza della domanda che dall’efficienza dell’offerta. E passiamo dal confronto economico a quello sociale. La grande promessa dell’America è sempre stata l’eguaglianza dinamica: un’alta mobilità sociale verso l’alto. L’America era la terra delle opportunità sconfinate. Quella promessa è inscritta ai piedi della statua della Libertà: "Datemi le vostre stanche, povere, / accalcate masse anelanti di un libero respiro / i miseri rifiuti delle vostre sponde brulicanti / mandateli a me i senza tetto, sballottati dalle tempeste / io levo la fiaccola presso la soglia d’oro". Il sogno americano non è stato un’ideologia bugiarda. Ora, le analisi di osservatori convergono: non solo le diseguaglianze, negli ultimi due decenni, si sono drammaticamente approfondite, ma la mobilità sociale si è cristallizzata. "Quella americana è la società più iniqua dell’Occidente", scrive Will Hutton. Il 20 per cento degli americani più ricchi guadagna nove volte di più del 20 per cento più povero, il doppio di quanto accade in Giappone, Germania, Francia. Non solo le élites raggiungono livelli di ricchezza e di reddito astronomici (l’un per cento della popolazione detiene il 38 per cento della ricchezza del paese); ma la mobilità verso l’alto ha rallentato, cadendo a ritmi inferiori a quelli dei paesi europei. La maratona sociale si è sgranata: un 20 per cento della popolazione si sposta in avanti, un 60 per cento resta nella stessa posizione, un 20 per cento tende a distaccarsi dal "gruppone" e a scivolare alle soglie dell’emarginazione. Il ritratto che Tom Wolfe traccia nel "Falò delle vanità" è quello che risulta nella realtà dall’indagine sociale di Robert Reich ("The Work of Nations") come dal reportage di Barbara Ehrenreich ("Nickel and Dimed"): di una società che va decomponendosi tra i due poli incomunicabili di una élite che si barrica nelle sue città private (3 milioni di americani asserragliati in 20 mila comunità recintate) e un proletariato interno che si è staccato dalla società fino a diventare proletariato esterno. Sia nella percentuale dei poveri (19 per cento della popolazione, contro il 6-7 per cento della media europea) sia in quella dei carcerati, che si avvicinano alla soglia dei due milioni, gli Stati Uniti toccano i vertici più alti delle classifiche internazionali. Ci sono per contro aspetti dei quali l’America può essere compiaciuta: l’occupazione. Il tasso di disoccupazione è stato abbattuto, nel corso degli anni Novanta, dal 7,5 al 4 per cento, per poi risalire, nel 2004, al 5,4 per cento, più basso rispetto all’8,9 per cento nell’area Euro; un successo, anche se ottenuto attraverso una estesa precarizzazione del lavoro. C’è la qualità dell’istruzione superiore. E quella altrettanto elevata delle strutture sanitarie, il cui accesso è tuttavia reso impervio a quaranta milioni di americani. In sintesi, la performance sociale degli Stati Uniti si riassume nella misura della redistribuzione del reddito: che investe l’11 per cento del Pil, contro il 26 per cento della media europea: una protezione sociale, dunque, più bassa e non compensata da un alto tasso di mobilità. C’è infine, ed è il più rilevante e controverso, l’aspetto politico del modello americano: il rapporto che si è modificato, negli ultimi due decenni, tra le due grandi forze che contraddistinguono la civiltà dell’Occidente: il capitalismo e la democrazia. Dall’analisi storica di Kevin Phillips ("Ricchezza e democrazia. Una storia politica dei capitalismo americano") emerge come l’equilibrio di quelle forze si sia alterato. ”Wealth against Commonwealth": un corto circuito, che fa del mercato e del popolo una cosa sola. Chi, dunque, è alla ricerca di "modelli", deve rivolgersi all’Europa, non all’America. per due ragioni fondamentali. In Europa le due grandi forze dell’Occidente, la democrazia e il capitalismo, sono rimaste distinte, capaci di costruire un nuovo compromesso sociale. L’Europa è da più di mezzo secolo un’area prospera e pacifica, priva di tentazioni e vocazioni aggressive. Può accettare di buon grado, se proprio qualcuno ci tiene, la metafora un po’ cretina che la contrappone, come seguace di Venere - dea gradevolissima - a un’America seguace di Marte, un dio rozzo e fracassone. E soprattutto, l’Europa potrebbe svolgere una preziosa opera di mediazione, con grande profitto dell’America stessa, tra il "West e il Rest". Ho detto potrebbe, con un condizionale. Perché l’Europa, con i suoi 25 paesi carichi di storia, di sangue e di gloria, non è un soggetto politico. Ha una moneta potente. Ha un vastissimo mercato. Ha una costituzione, un parlamento. Ma non ha un governo. una potenza virtuale. Ha compiuto un processo miracoloso di integrazione economica. Ma è ancora al di qua della soglia dell’integrazione politica. Quanto a lungo potrà restare in questa condizione? Gli euroscettici si dichiarano convinti che resterà sempre al di qua di quella soglia, come i personaggi di Buñuel nell’Angelo sterminatore", perché non c’è un demos europeo, un popolo, una patria: una identità europea. Qui però sbagliano, perché l’identità si costruisce, non si eredita. L’identità dell’Europa è il suo progetto di grande potenza mondiale pacifica e democratica. E tuttavia, l’economia europea cresce a un ritmo inferiore a quello americano. Il suo tallone di Achille è la cintura di castità di cui l’Europa si è circondata: un patto di stabilità paralizzante. La minore crescita europea, rispetto a quella Usa, dunque, non è dovuta alla eccessiva rigidità dei costi ma alla insufficienza della domanda interna. E, parallelamente, la maggiore crescita Usa non è dovuta alla flessibilità dei costi, ma alla spinta propulsiva della politica fiscale e monetaria. Il lato paradossale di questa condizione è che l’Europa, mentre si lamenta dell’aggressività competitiva impressa alla domanda americana dalla svalutazione del dollaro, dipende, per la sua crescita stentata, soltanto dalla domanda Usa. Eppure, l’Europa dispone di una leva potente per l’attivazione della domanda interna. Si chiama euro. La rivalutazione dell’euro rispetto al dollaro costituisce, certamente, un danno immediato per le esportazioni europee, ma anche un formidabile potenziale ”attrattore" di capitali esterni. Qui si ripropone il progetto Delors di un piano europeo di investimenti sottratto alla morsa del Patto di stabilità, perché finanziato dal risparmio esterno. Sarebbe la risposta giusta alla sfida americana: offrire al risparmio mondiale i titoli di un Prestito europeo per lo sviluppo, un’alternativa all’investimento in dollari. Una mossa del genere produrrebbe due risultati. Primo: l’attivazione di una politica macroeconomica europea, monetaria e fiscale, che riscatterebbe l’Europa dalla condizione di dipendenza dalla politica economica Usa. Secondo, complementare al primo: il conseguimento, per l’euro, di un ruolo di global player, che consentirebbe all’Ue di promuovere una nuova intesa per la ricostruzione di un ordine monetario mondiale, una nuova Bretton Woods, ricalcata, questa volta, sulla proposta keynesiana di un sistema multilaterale costruito attorno a una nuova moneta mondiale di riserva. La "discesa in campo" dell’euro costituirebbe un grande evento politico. Non è ancora chiaro a molti, e tra questi ai banchieri centrali, che la creazione della moneta unica europea costituisce al tempo stesso il punto estremo del processo di integrazione economica ”funzionale" e la base di partenza di un processo di integrazione politica "federale". La moneta è un’istituzione politica. L’euro costituisce, in tal senso, un fatto rivoluzionario. Finora esso è stato ibernato nel ghiaccio paralizzante di un Patto che lascia alla Banca centrale europea la poco entusiasmante manovra di un tram: avanti o dietro, e più spesso né avanti né dietro, su un binario unico. E ciò, in un contesto economico mondiale di instabilità, nel quale gli Stati Uniti d’America giocano più spesso il ruolo di perturbatori che quello di equilibratori. In questo contesto l’Unione europea può svolgere - ed è proprio ciò che le chiedono gli economisti e i sociologi eretici - una funzione costruttiva. venuto il momento di un verifica politica del progetto europeo. Dobbiamo sapere quanti e quali lo intendono come poco più di un Mercato e quanti e quali come Potenza politica. Si avvicina il momento della verità. Giorgio Ruffolo