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 2005  aprile 08 Venerdì calendario

«La liberazione 60 anni dopo - Firenze» (3), La Stampa 8/4/2005. La via in cui nacquero a tredici anni e cinquantotto passi di distanza Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli venne minata dai tedeschi in ritirata nella notte fra il 3 e il 4 agosto del 1944

«La liberazione 60 anni dopo - Firenze» (3), La Stampa 8/4/2005. La via in cui nacquero a tredici anni e cinquantotto passi di distanza Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli venne minata dai tedeschi in ritirata nella notte fra il 3 e il 4 agosto del 1944. Non tutte le mine funzionarono. La casa di Guicciardini restò su. Quella di Machiavelli fu distrutta e sulle macerie venne costruita una palazzina, oggi né bella né pulita, con una targa sulla facciata che testimonia i memorabili natali. Per rallentare ulteriormente l’avanzata degli Alleati, i soldati della Wehrmacht disseminarono i ruderi di mine, poi fecero saltare i ponti sull’Arno: quello di Santa Trinita (si chiama così, senz’accento), quello delle Grazie, quello della Vittoria, quello della Carraia, il ponte di Ferro. Per ragioni ancora controverse lasciarono intonso soltanto Ponte Vecchio; l’ipotesi più accreditata è che anche nei cuori del Terzo Reich albergasse qualche nobile sentimento. L’ingresso a Ponte Vecchio, sulla sponda d’Oltrarno, venne ostruito con le macerie e con le mine, e i tedeschi si rifugiarono sull’altro lato della città, quello del Duomo e degli Uffizi. Sicché i manuali e i fiorentini sono divisi oggi come da sempre dall’Arno: per qualcuno la liberazione di Firenze è del 4 agosto, quando mezza città tornò in mano ai cittadini; per altri è dell’11, quando le truppe di Hitler si lasciarono definitivamente alle spalle la patria di Dante. Quella notte fra il 3 e il 4, sentendo il fragore delle esplosioni, Eugenio Montale mise in versi il suo dolore: «Buio, per noi, e terrore / E crolli di altane e di ponti / Su noi come Giona sepolti...». Rinaldo Bausi alloggiava in Boboli e comandava la sua Squadra di Azione patriottica, un gruppo cattolico. Oggi che ha ottantatré anni, le gambe guaste e il passo breve, racconta: «I nazisti se n’andarono perché gli Alleati avanzarono. Ma il contributo nostro fu prezioso, perché provocò un urto inatteso e risoluto». Giorgio Spini, azionista e valdese, che nei decenni a venire si sarebbe imposto come storico, era stato portato dalle vicissitudini della guerra ad arruolarsi nell’VIII Armata, quella delle forze britanniche, nello «Psychological Werfare Branch». Si occupava, in breve, di guerra psicologica. «Le fo un esempio. Con l’VIII Armata attraversammo l’Arno sia a monte sia a valle di Firenze, per dare a intendere ai tedeschi che fossimo chissà quanti, pronti a una micidiale manovra a tenaglia. Difatti quelli ci cascarono e se la batterono». Giorgio Spini ha ottantanove anni, riceve dopo le sedici perché è «anziano e dormiglione, ma quando non dormo sono desto». Dimora in una villa di Fiesole, bella come sono le ville di Fiesole. «Quando entrammo in città, la mattina del 4 agosto, un omone scamiciato prodigiosamente brutto s’accorge che sono italiano. Mi soffoca in un abbraccio. Piange commosso e annuncia agli altri: ”E’ arrivato anche un italiano”. Allora gli dico: ”Di Firenze sono”. E la folla sente e mugghia: ”E’ di Firenze, di Firenze, viva Firenze”». Ora che la sponda sinistra era liberata, il problema era di mantenere i contatti coi poveri partigiani rimasti sulla sponda destra, in balia dei tedeschi e dei fascisti. «La dominazione nazista non fu mostruosa, ma è anche vero che per un nonnulla si finiva passati per le armi», precisa Bausi. Tanto più che i britannici non avevano alcuna intenzione di guadare il fiume e ingaggiare battaglia: le perdite erano state già molte e andavano contenute. Aspettare sarebbe bastato. Qualche partigiano, siccome l’estate era torrida e l’Arno era in secca, passò di là da dove l’acqua era bassa. Altri più istruiti, o più informati, usavano il corridoio vasariano. Giovanni Pallanti, ex vicesindaco democristiano, approfitta di una bella giornata di sole per illustrarci il corridoio: «Incredibilmente i tedeschi non lo conoscevano. Oppure, come capita, se ne dimenticarono», dice. Il corridoio fu costruito in cinque mesi da Giorgio Vasari nel 1564 in occasione delle nozze tra Francesco I de’ Medici e Giovanna d’Austria. Lo scopo era di collegare Palazzo Pitti, residenza del Granduca, con Palazzo Vecchio, dove Francesco si recava per amministrare il Granducato. La singolarità del corridoio è di essere lungo un chilometro e di passare da un edificio all’altro senza mai sbucare a cielo aperto, compreso nel tratto sopra l’Arno. Parte da Palazzo Pitti, prosegue attraverso via dei Bardi, gira attorno alla Torre dei Mannelli, sbuca dentro Ponte Vecchio, fiancheggia il fiume attraverso grandi arcate, si immette negli Uffizi e da lì nel Palazzo Vecchio. A Francesco de’ Medici serviva per recarsi al lavoro evitando di mischiarsi al volgo e fu lui, non sopportando l’odore della carne, a imporre che le botteghe di macelleria fossero sfrattate da Ponte Vecchio a vantaggio degli artigiani orefici. Sessantuno anni fa ai partigiani servì per transitare in relativa tranquillità dai quartieri liberati a quelli occupati. Nella zona occupata era rimasto Vittore Branca, nato a Savona nel 1913 e morto a Venezia lo scorso anno, ma insignito della cittadinanza onoraria di Firenze per i meriti nella Resistenza e nelle lettere. In un bel libro di memorie (Ponte Santa Trinita, Marsilio editore) raccontò che si decise di restare dove si era per accelerare la ritirata tedesca. Però un partigiano seppe far passare un filo telefonico lungo il corridoio vasariano e così stabilire un contatto costante con l’Oltrarno liberato. Anche a Firenze, come nel resto d’Italia, non è agevole individuare i partigiani veri da quelli dell’ultima ora. Branca ricorda un gruppo ristretto e la città deserta e terrorizzata, specie nella settimana fra il 4 e l’11. Uno come Pietro Pacciani conservò sino alla morte il suo attestato di partigiano. Pacciani era mugellese e si diede alla macchia diciannovenne, nel 1944. La linea gotica passava tre chilometri a nord di Vicchio, dove egli abitava. L’avvocato che nel 1952 lo difese nell’unico omicidio che gli sia per sentenza attribuibile - quello di un cenciaiolo che gli insidiava la fidanzata - era pure lui partigiano. In uno slancio d’ardore, Pacciani aveva sfidato le pallottole della Wehrmacht e gli aveva salvato la vita, a lui e a una bambina di cui nulla s’è più saputo. Piuttosto fumosa è pure la vicenda di Licio Gelli, in futuro gran maestro della Loggia P2, nel ’44 fascista di cui si dice abbia fatto il doppio gioco e aiutato la resistenza. Di sicuro il doppio gioco lo fece Gino Bartali, già celeberrimo per aver vinto il Giro d’Italia nel 1936 e nel 1937 e il Giro di Francia nel 1938. Periodicamente partiva da Firenze verso Assisi dove i francescani gli davano documenti falsi che lui infilava nella canna della bici prima di rientrare a Firenze. Tutto in giornata e tutto pedalando. I documenti servivano alla curia perché fossero distribuiti agli ebrei e agli ebrei per sfuggire alla deportazione. Giorgio Spini non ricorda più quale accidente gli abbia impedito, la mattina dell’11 agosto 1944, di percorrere il corridoio vasariano. I suoi genitori erano nella parte occupata e dopo mesi di lontananza lui fremeva all’idea di rivederli. Il Comandante della sua unità, sir Charles Beauclerk, gli diede l’assenso: «Era un gran signore con l’accento di Oxford. Aspettava la morte di uno zio per assurgere al titolo di Lord», dice Spini. Sir Beauclerk, con l’aria annoiata che conservava anche sotto il fuoco nemico, gli raccomandò: «Capisco, tenente Spini. Ma non si faccia uccidere, per cortesia: non mi piacciono i danni collaterali». Spini costeggiò l’Arno sino alle Cascine dove constatò che l’acqua gli arrivava a mezzo bustò. Si ridusse in mutande e con la divisa fece un fagotto. Di là dal fiume si rivestì ed entrò, primo uomo dell’esercito alleato, nella Firenze definitivamente liberata. I tedeschi, convinti erroneamente di essere travolti da un momento all’altro, se n’erano andati all’alba. «Ma il mio non fu un ingresso glorioso. Mi rivestii e mi incamminai con la pistola in una mano e i mutandoni bagnati nell’altra», ricorda. E ricorda un altro dettaglio: «Il fiume lo guadai con un vecchio amico, il babbo di Oriana Fallaci». Oriana aveva quindici anni e aveva aiutato il babbo impiegandosi come staffetta. Trasportava dispacci o armi sotto i vestiti. Anche Luisa faceva la staffetta. Luisa conobbe Rinaldo Bausi in quei mesi. Ma il fidanzamento fu rimandato alla fine della guerra. Anche oggi, che vive in periferia con Rinaldo, suo marito, non ha voglia di raccontare le faccende private: «Non c’era tempo per le effusioni. Ci si vide spesso, ci si rivide dopo la guerra, ci si fidanzò e ci si sposò». Finalmente liberato e bonificato il lungofiume, gli Alleati varcarono l’Arno il 14 agosto. Presso i viali della circonvallazione si sparava ancora, ma a Palazzo Vecchio e a Palazzo Ricasoli s’erano già insediate le giunte comunali e provinciali. Il sindaco era Gaetano Pieraccini, socialista, che da lì a qualche anno avrebbe sfiorato la presidenza della Repubblica toccata a Luigi Einaudi. Vicesindaco era Adone Zoli, democristiano, futuro presidente del Consiglio. Zoli era rientrato a Firenze qualche tempo prima fingendosi pericolosissimo appestato, il che gli permise di buggerare le linee tedesche. Umberto Saba, in piazza de’ Pitti, scrisse della Firenze che «taceva assorta nelle sue rovine». Sempre lì, in piazza de’ Pitti, Carlo Levi aveva scritto Cristo si è fermato a Eboli (a pochi metri da dove Dostevskij aveva scritto L’idiota) e organizzato la rinascita del quotidiano La Nazione del Popolo. Lo dirigeva con Vittore Branca, Arturo Bruni, Giacomo Devoto, Bruno Sanguineti. Vi collaboravano Ettore Bernabei, Carlo Cassola, Attilio Momigliano, Montale e Saba, Bruno Fallaci e la sua giovanissima nipote, Oriana. Sono giorni che le amministrazioni toscane celebrano ogni anno, con sfilate e manifestazioni. A quelle dello scorso anno erano «gradite le bandiere della pace».