mattia Feltri, La Stampa 25/3/2005., 25 marzo 2005
«La liberazione 60 anni dopo - Napoli» (1), La Stampa 25/3/2005. Adolfo Pansini fu dichiarato "discolo" e tratto in arresto nel luglio del 1940
«La liberazione 60 anni dopo - Napoli» (1), La Stampa 25/3/2005. Adolfo Pansini fu dichiarato "discolo" e tratto in arresto nel luglio del 1940. Gli agenti dell’Ufficio politico della Questura di Napoli gli avevano trovato in casa due rivoltelle a tamburo, quattro pugnali, una stampiglia e i relativi volantini con scritto "A morte il Duce", con l’aggravante che la maiuscola compariva soltanto nel verbale. Per Adolfo Pansini venne disposto il ricovero in istituto correzionale poiché il padre, Eduardo, aveva "dato patente prova di gravissimo difetto di vigilanza", secondo la nota indirizzata al tribunale dal questore. Eduardo era tipografo - ma dopo la guerra sarebbe diventato più celebre da pittore - e non iscritto al Partito, il che ne testimoniava i "sentimenti non favorevoli al Regime". Adolfo era diciassettenne al terzo anni del liceo Artistico. Per aver tramato e sobillato i coetanei fu condannato a otto mesi di reclusione. In quel luglio del 1940 gli restavano poco più di tre anni di vita. Inutile andare fuori dal liceo Pansini, al Vomero. Lì i ragazzi sanno di Adolfo quel che c’è da sapere. Nel 2003 si celebrarono i sessant’anni delle Quattro giornate di Napoli, si tennero seminari, commemorazioni. Il presidente della Repubbblica, Carlo Azeglio Ciampi, mandò un messaggio per onorare "una pagina esaltante della storia della nazione". L’ex presidente, Oscar Luigi Scalfaro, sostenne che gli italiani tutti dovrebbero battersi per la Costituzione come i napoletani si erano battuti per la libertà. Il sindaco Rosa Russo Jervolino e il governatore Antonio Bassolino maneggiarono con maestria le più alte parole. Nei convegni, anziani partigiani proposero la riconversione delle fabbriche d’armi in usi convenienti alla pace. I no global, alle prese con la giustizia come Adolfo Pansini sessant’anni prima, ribattezzarono "Quattro giornate di Napoli" quelle del 14 al 17 marzo 2001, sanguinoso prologo al G8 di Genova del luglio successivo. Due anni fa, i professori del Pansini commissionarono ricerche e gli alunni stesero relazioni, tutto il sufficiente perché oggi i giovani abbiano saputo e conservino la memoria, perché ricordino con orgoglio e consapevolezza politica l’eorismo dei loro nonni e lo scatto morale della loro città. Oggi dicono che da Napoli e soprattutto da qui, dal Vomero, partì la ribellione al nazifascismo e il riscatto d’Italia e d’Europa, con una sicurezza meno diffusa fra gli storici e i testimoni. E infatti, oltre liceo Pansini, la gente per strada abbina le Quattro giornate a Masaniello o a Giuseppe Mazzini o a Eleonora Piementel, la musa della Repubblica napoletana. Chiede: è dell’Ottocento, vero? E’ quando si richiama al dovere della memoria che la memoria comincia a non esserci più, come conviene Antonio Ghirelli, giornalista e scrittore, che mancò le Quattro giornate perché era in città poco prima e ci tornò poco dopo: durante era andato a incontrare gli americani appena sbarcati a Salerno, e con una pattuglia partigiana liberò Vico Equense: "Il podestà, che s’era già rifatto sindaco, ci accolse in festa e ci offrì latte e uva", racconta oggi Ghirelli. E le Quattro giornate? "E le Quattro giornate, per quello che ci ho capito io, furono un vaffanculo ai tedeschi". Il 28 settembre del 1943, i primi tedeschi cominciarono ad abbandonare Napoli. Quel giorno, al Vomero, un soldato della Wehrmacht fu ucciso a pistolettate da alcuni giovani che s’erano nascosti per sfuggire al servizio obbligatorio ordinato dal colonnello Helmut Scholl. Su trentamila arruolabili, s’erano presentati in centocinquanta, e Scholl andò fuori dai gangheri, come la volta precedente, quando aveva ordinato la consegna di tutte le armi e i napoletani depositarono coltelli e persino sciabole, ma non armi da fuoco. E insomma, all’uccisione del soldato i tedeschi risposero rastrellando il Vomero e prendendo una cinquantina di ostaggi. Seguirono scontri e ci fu qualche morto. Era la prima delle Quattro giornate. L’ultima sarebbe stata l’1 ottobre, e la mattina poco dopo le nove la Quinta armata era entrata in città. "Per questo io sostengo che le Quattro giornate in realtà furono due", dice ancora oggi Lino Jannuzzi, senatore di Forza Italia che allora aveva quindici anni e il padre lo obbligava a girare per Napoli in calzoni corti perché, vestito da bambino, si evitasse qualche pallottola. Ricostruire le Quattro giornate è più inutile che difficile. Secondo qualcuno cominciarono il 27 e finirono il 30. Secondo altri non cominciarono affatto. Altri ritengono che si trattò di resistenza partigiana. Altri ancora di reazione spontanea ed esasperata al crudele e inetto rigore germanico. Lo scrittore Raffaele La Capria oggi dice: "Anche io, come Ghirelli, arrivai a Napoli alla fine delle Quattro giornate. E’ vero che i napoletani combatterono e morirono, ma è anche vero che spararono sui tedeschi in ritirata, che stavano abbandonando la città perché sopraggiungevano gli americani". Lo storico di destra, Enzo Erra, ha 79 anni e dall’ospedale ribadisce la tesi del suo libro, "Le Quattro giornate che non ci furono". Lui era a Napoli e vide scaramucce fratricide, poi partì verso Salò. Lo storico di sinistra Gianni Oliva ha scritto di "una mobilitazione tanto disordinata quanto generosa, che aveva i connotati di un urto elementare tra occupati e cittadini". Maurizio Valenzi ha novantasei anni, è stato senatore del Pci e sindaco di Napoli dal 1975 al 1983. Dice che lui c’era e di revisionismi non si cura: "Cacciammo i tedeschi. Molti di noi morirono. E il partito comunista partecipò alla rivolta e la coordinò". La maggior parte dei volumi sulla Resistenza e la Liberazione trascura le Quattro giornate. Eppure tutto comincia lì, e infatti Napoli è da sempre in anticipo, per la precisione di due anni. I sessant’anni dalla Liberazione che tutta Italia celebrerà il prossimo 25 aprile, a Napoli sono già stati celebrati nel settembre del 2003. Quest’anno si farà poco, l’ordinario, qualche piccola adunata, qualche discorso. Del 25 aprile 1945, Valenzi ricorda poco: era a Napoli a riorganizzare la città. La Capria ricorda il disgusto per piazzale Loreto e poco altro. Ghirelli era salito a Bologna e ricorda un mezza giornata di festa, ma lui aveva già festeggiato sia a Napoli sia a Firenze. I reduci regalano ricordi di guerra. I politici e i giornali qualche polemica. Nel 2003, il Corriere del Mezzogiorno, col direttore Marco Demarco, intavolò un dibattito sul ruolo del Pci nelle Quattro giornate. Uno dei leader, Mario Palermo, aveva abbandonato Napoli il 26 settembre e vi era tornato il 2 ottobre, e sul suo diario non appuntò una riga a proposito della rivolta al nazifascismo. "Tirammo fuori anche il diario di Benendetto Croce: sui fatti non una parola, nemmeno lì". La discussione avvampò e svanì per lasciare spazio alle rievocazioni in fascia tricolore. Nel pomeriggio del 30 settembre, al Vomero, alcuni soldati tedeschi delle retrovie, appostati vicino al ponte della Pigna, individuarono un gruppo di civili armati e fecero fuoco. Il gruppo riparò dentro una masseria chiamata "Pezzalonga". Aveva pochi fucili e poche munizioni, mentre i tedeschi possedevano armi automatiche, oltre che proiettili e addestramento. Per evitare che i tedeschi chiamassero rinforzi, nel gruppo si decise di tagliare i cavi telefonici disposti lungo il muro del cascinale. Adolfo Pansini aveva vent’anni e si offrì volontario. La missione gli riuscì ma non fu sufficiente. I tedeschi scavalcarono la cinta della masseria con una scala a pioli e la aggirarono. Non tutti gli italiani si misero in salvo. Il corpo di Adolfo Pansini fu recuperato poche ore più tardi. Attorno c’erano i bossoli del suo fucile. Se ne dedusse che Adolfo aveva trascurao l’ipotesi della fuga e continuato a sparare sui tedeschi sinché non venne ucciso. Probabilmente aveva trattenuto i nemici il tempo sufficiente perché i compagni potessero dileguarsi. Il cadavere fu trasportato al liceo Sannazaro. Lì il padre, Eduardo Pansini, pose dei fiori sul figlio e pronunciò un’orazione che le cronache definiscono "potente". Disse che per dare un senso a quel sacrificio bisognava continuare la lotta contro il nazifascismo e per la libertà e la democrazia. Adolfo ebbe la medaglia d’oro. Così altri "scugnizzi", come Gennarino Capuozzo, morto a dodici anni. La medaglia alla memoria gli fu consegnata perché "in uno scontro con carri armati tedeschi, in piedi, sprezzante della morte, tra due insorti che facevano fuoco con indomito coraggio, lanciava bombe a mano fino a che lo scoppio di una granata non lo sfracellava sul posto di combattimento...". Ce ne si dimenticò presto. "Napoli divenne una Saigon mediterranea", dice La Capria. I tempi della rinascita furono preceduti da quelli della miseria, del contrabbando, della prostituzione, della sete, delle zuppe cucinate con acqua di mare, della pesca su porte trasformate in zattere. I tempi di chi per mestiere faceva "lo zio di Roma" ai funerali per dare importanza al defunto, o pittava di azzurro gli occhi dei pesci per farli sembrare più freschi. Degli americani con il boogie-woogie e delle università riaperte e frequentate da cenciosi. Il dibattito sulla Liberazione, sulle Quattro giornate di Napoli, il loro valore storico e politico, le attribuzioni, le ricriminazioni, le esaltazioni e le denigrazioni, sarebbero cominciate il decennio successivo, e stancamente proseguite fino a oggi. Sul momento valse il consiglio di Peppino Fiorelli e Nicola Valente, che nel ’44 scrissero una canzone: "Nun vale cchiù a niente / ’o ppassato a penzà... / basta che ce sta ’o sole / ca c’è rimasto ’o mare / na nènna a core a core / ’na canzone pe’ canta’ / Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto / chi ha dato, ha dato, ha dato / scurdammoce ’o passato...».