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 2005  aprile 09 Sabato calendario

Crisi dell’auto. La Repubblica, 09/04/2005. L´Eldorado può attendere. Affamata di sbocchi, l´industria automobilistica mondiale si sta già mangiando il miracolo cinese, saltando, anche qui, casello dopo casello nella corsa alla sovrapproduzione

Crisi dell’auto. La Repubblica, 09/04/2005. L´Eldorado può attendere. Affamata di sbocchi, l´industria automobilistica mondiale si sta già mangiando il miracolo cinese, saltando, anche qui, casello dopo casello nella corsa alla sovrapproduzione. L´anno scorso, l´offerta di auto, in Cina, è aumentata del 30%, la domanda del 18. I prezzi sono in caduta. L´utilizzazione degli impianti è scesa dall´85 al 75%, ma questo non impedisce alle imprese di continuare ad investire in nuova capacità produttiva. Quest´anno, calcolano gli analisti di Morgan Stanley, le fabbriche saranno in grado di sfornare ancora il 25% in più di auto, ma la domanda dei cinesi salirà del 10. I profitti tenderanno allo zero. La cura? "Una dieta di ossa spolpate", dice il rapporto: ovvero guerra dei prezzi e selvaggia decimazione dei protagonisti. Le potenzialità del futuro, sul mercato cinese sono, naturalmente, pressochè illimitate. Ma, intanto, la scommessa diventa sempre più costosa e in pochi arriveranno a vedere l´Eldorado. Il problema è che di ossa spolpate l´industria mondiale dell´auto vive già da decenni: in una ventina d´anni, gli attori di primo piano del settore sono passati da oltre 30 ad una dozzina, quasi metà dei quali traballanti. Un´altra grande banca d´investimenti, Goldman Sachs, valuta che, fra le grandi case, solo una su due riesca oggi a riguadagnare il costo del capitale investito. E´ una questione di fantasmi. L´industria mondiale produce 60 milioni di vetture l´anno, ma deve caricarsi sul groppone il peso di altri 20 milioni di auto-fantasma, quegli spettri che si concreterebbero in acciaio e plastica, facendo funzionare i mastodontici impianti a pieno regime, se solo si trovasse qualcuno disposto a comprarle. Quei fantasmi pesano sui bilanci e l´apparizione dei nuovi fantasmi cinesi è un´altra scossa elettrica per un settore in permanente fibrillazione, dove il divorzio General Motors-Fiat è solo l´ultima convulsione. "L´auto è un´industria al tramonto" secondo più di un esperto. I dati dell´economia reale non dicono questo. Nei paesi industrializzati, l´auto rappresenta ancora almeno un decimo del prodotto nazionale, milioni di posti di lavoro, un enorme volano: secondo uno studio McKinsey, un quarto dei profitti del settore (210 miliardi di dollari) viene assorbito dai fornitori dell´indotto. Ma, se scegliete un´altra angolazione, il settore diventa praticamente invisibile: in Borsa i suoi titoli valgono solo pochi spiccioli e le sue obbligazioni hanno il rating dei titoli spazzatura. Come un manipolo di naufraghi, i grandi del settore sopravvivono grazie al cannibalismo. La Toyota prospera ai danni di Gm e Ford. L´ultima success story, il boom dei profitti 2004 di Bmw e Audi, è anzitutto lo specchio della contemporanea crisi della Mercedes. Gli economisti dicono che sono i segni di un settore maturo, condannato a rincorrere grandi volumi di produzione, per realizzare le economie di scala che garantiscano i profitti. Analisti, come quelli di Morgan Stanley, ne traggono le conseguenze, invitando le imprese ad ispirarsi al settore della moda: cambiare spesso i modelli, per titillare il consumismo dei clienti. Le case lo stanno già facendo: la coreana Hyundai annuncia 12 nuovi modelli nei prossimi tre anni, Peugeot e Renault puntano a ridurre a tre anni il ciclo di vita di un modello. Chi non ha soldi da spendere per sviluppare nuove vetture, rivernicia le vecchie dando loro un nuovo nome: in Giappone, il numero di modelli in circolazione è il doppio di dieci anni fa. Non è solo questione di psicologia pubblicitaria. Per capire quanto quello dell´auto sia un mercato stagnante, basta un dato dello studio McKinsey: solo un quarto dei profitti del settore vanno al produttore in quanto tale. Quasi metà dei profitti arrivano dopo la vendita, dal finanziamento delle rate d´acquisto e dall´assistenza. "Ci vuole Darwin" dice un´analista dell´americana Wards, Barbara McClellan, invocando la legge della sopravvivenza del più adatto. Ma chi è il più adatto? Lei per prima non saprebbe dirlo. Se si facesse un´istantanea della situazione attuale, osserva, Mitsubishi, Fiat, Mg Rover, Saab, Smart, Isuzu dovrebbero scomparire. Ma solo due-tre anni fa si sarebbe potuto dire lo stesso di Chrysler, Nissan, Mazda, Ferrari e Renault, che invece oggi prosperano. E altre, che prima andavano bene, oggi traballano: Volkswagen, Jaguar, Land Rover e Opel. E´ come guardare fagioli bollire in una pentola trasparente: difficile dire dove sarà il singolo fagiolo fra un paio di secondi. Strategie societarie unanimemente considerate vincenti appaiono perdenti, e viceversa. La fusione Daimler-Chrysler sembrava un´emorragia a senso unico della Mercedes oltre oceano. Invece oggi è la Chrysler a tenere a galla i bilanci della Daimler. Analogamente, il 100 per cento del profitto del gruppo Volkswagen viene oggi dalla, un tempo asfittica, Audi. Per anni, la redditività della Opel ha aiutato General Motors, come la Ford Europa quella della casa madre: oggi è Detroit a correre in soccorso delle consociate europee. Questo per dire che le fusioni, almeno in senso difensivo, sono utili? Niente affatto. Gm ha pagato un miliardo e mezzo di dollari per liberarsi del legame con Fiat. La stessa Gm ha speso quasi 3 miliardi di dollari, in 16 anni, per tentare di portare la Saab alla soglia di 200 mila auto prodotte, ma è ancora bloccata a 120 mila. Vicenda identica per la Ford con la Jaguar: 5 miliardi di dollari spesi in 15 anni, senza riuscire a portare le vendite da 120 a 200 mila vetture. Daimler-Chrysler sta abbandonando Mitsubishi e i 2 miliardi di dollari che aveva investito nella casa giapponese. Bmw ha speso 4 miliardi di dollari per rilanciare Mg Rover, ma, cinque anni fa, ha preferito pagarne oltre 750 milioni per convincere una cordata di imprenditori inglesi a prendersela. Un disastro per la Bmw? Pochi oggi lo direbbero: la casa tedesca ne è uscita tenendosi la Mini, il cui rilancio gli ha consentito, finalmente, di superare abbondantemente la soglia di un milione di auto prodotte. Allora, ricette vincenti? Tutte e nessuna. Se si fa una graduatoria degli 11 maggiori gruppi automobilistici in base all´ultimo margine di profitto registrato, si vede che, fra i primi sei, ben quattro seguono una strategia di autonomia (Toyota, Honda, Bmw e Peugeot-Citroen, la cui fusione è ormai vecchia di vent´anni) e solo due sono il risultato di una fusione (Renault-Nissan e Hyundai-Kia). Le ultime cinque hanno tutte, invece, seguito (la Fiat fino a ieri, le altre sono Gm,Vw,Ford e Daimler-Chrysler) strategie di fusioni e acquisizioni a ripetizione. In realtà, nel mondo dell´auto, nessuno va veramente da solo. L´istantanea sembra, però, premiare chi ha scelto la linea degli accordi limitati e delle collaborazioni mirate. Toyota, ad esempio, ha una fabbrica in comune con Gm in California, ne farà una con Peugeot in Turchia, ma non punta a fagocitare nessuno. Analogamente, Peugeot ha progetti in comune con Ford e Bmw (sui motori) con Fiat (monovolume), con Mitsubishi (4x4), ma nessun piano di espansione societaria. Tuttavia, i due successi più vistosi degli ultimi anni sono proprio le due fusioni Hyundai-Kia e, soprattutto, Renault-Nissan. L´anomala alleanza franco-giapponese (formalmente le due società e i due marchi restano distinti, anche se sotto un solo presidente, Carlos Ghosn) è, anzi, diventata il paradigma della fusione di successo. Per fare una buona fusione, sintetizza Benjamin Gomes-Casseres, professore di management alla Brandeis University, "ci vuole un po´ di cattiva aritmetica. Dal punto di vista del valore creato, 1 più 1 deve essere uguale a 3, maggiore, cioè, della somma delle parti. Dal punto di vista della gestione, 1 più 1 deve essere uguale a 1: le due società devono agire come una cosa sola, anche se restano indipendenti". "Il primo requisito - spiega Giuseppe Volpato, che insegna Gestione delle imprese all´università di Venezia - è che le due società siano complementari: nella gamma di modelli, nella geografia dei mercati e anche nella localizzazione degli impianti". Fiat, ad esempio, era probabilmente più complementare, ad esempio, a Mercedes, piuttosto che a Gm. "Il secondo requisito è l´unità di comando". Un´altra lacuna della fusione Gm-Fiat: "Quando si trattò di fare la piattaforma comune Premium, fra Alfa e Saab - racconta Volpato - fu un tira e molla interminabile. Alla fine si arrivò ad un compromesso. ma la Saab si tirò indietro lo stesso. E la Fiat rimase da sola, con una una piattaforma che neanche le piaceva". Il rischio da evitare? "Che il marchio forte - dice Volpato - prevalga sul più debole, dando l´impressione di un appiattimento della qualità". Ghosn, alla guida della fusione Renault Nissan, sembra essere riuscito ad applicare la ricetta, trasformando quella che fu definita "l´alleanza dei deboli" in una solida realtà. Uno studio della Harvard Business School documenta le capacità di gestione del management francese, ma anche l´accurata ricognizione delle compatibilità fra le due aziende. Secondo Volpato, tuttavia, il merito maggiore, nell´alleanza franco-giapponese, è di avere fatto un´operazione all´altezza della situazione. "Spesso, le fusioni non riescono, anche se gli obiettivi specifici che vengono posti sono stati raggiunti. Prendiamo Gm e Fiat. I torinesi volevano sopravvivere, gli americani volevano togliere la Fiat dal circuito delle fusioni. Tutt´e due ci sono riusciti. E il problema, allora? Il problema era che la situazione - sul piano della innovazione, degli investimenti - era assai peggiore di quanto i due protagonisti volessero riconoscere". Anche sulla scorta dell´esperienza Renault-Nissan, il Lego dell´industria automobilistica è, probabilmente, destinato a continuare. Ma le vere notizie, nel mondo dell´auto, oggi sono altre. E´ stata accolto come un rintocco di campane funebri l´annuncio che la moribonda Mitusbishi sarà rianimata e rilanciata: la speranza di spartirsi il suo milione e mezzo di auto l´anno, per il momento, è svanita. E si guarda con inquietudine all´attivismo degli indiani della Tata, i malesi della Proton sui pochi mercati ancora promettenti. Fino a che, naturalmente, non sbarcheranno i cinesi. MAURIZIO RICCI