Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  aprile 11 Lunedì calendario

ZANGHERI Renato

ZANGHERI Renato Rimini 10 aprile 1925. Politico • «[...] uno dei capi storici della vecchia sinistra [...] sindaco comunista della Bologna degli anni ’70 (1970-1983). [...] Fu primo cittadino negli anni dei grandi trionfi del Pci ma anche di grandi lutti: l’Italicus, la vetrina della città-mito del Pci infranta dal movimento del ’77, Ustica, la strage della stazione, quando ai funerali delle 85 vittime della bomba fascista, il presidente della Repubblica Pertini lasciò il gruppo delle autorità e si mise al fianco di Zangheri che pronunciava l’orazione davanti a una piazza attonita. Un’immagine indimenticabile per testimoniare che le istituzioni possono stare vicine ai cittadini. [...]» (Paola Cascella, “la Repubblica” 11/4/2005) • «[...] l’odiatissimo sindaco del ’77 bolognese, il simbolo del Pci al quale gli indiani metropolitani gridavano “Zangherì Zangherà zangheremo la città”, e non erano certo i più minacciosi [...] Da anni ha scelto una vita appartata, di studioso, sempre elegante nella figura slanciata, distante dalla futile polemica. Come è stato possibile che quest’uomo, con tutte le caratteristiche e persino le movenze del servitore dello Stato, diventasse bersaglio di tanto odio, molto oltre una critica politica? “Erano anni in cui la ragione s’era eclissata... ”, sussurra. “E anche noi del Pci di sbagli ne facemmo, anche se non tutti quelli che ci vengono imputati. Di quei giovani non è che avessimo capito un granché...”. Nell’anniversario del ’77 diversi libri hanno ricordato una sua presunta, infelice frase di sostegno ai poliziotti, pronunciata il giorno dopo l’assassinio di Francesco Lorusso. Come prima reazione Zangheri aveva criticato le forze dell’ordine. Il giorno dopo, invece, al questore avrebbe detto: “Siete in guerra e non si può criticare chi è in guerra”. Ma non andò affatto così, rivela ora l’ex sindaco: “Non mi sono mai neanche sognato di dire al questore che capivo che in una guerra bisogna difendersi. Ma le dirò di più: anche la tesi del complotto non era mia, e neanche di ambiente comunista”. Quella tesi, a cui accenna nei mesi seguenti anche il segretario provinciale del Pci, Renzo Imbeni - e che l’Unità rilancia con campagna martellante (ne ricavò poi anche un libro, Il complotto di Bologna) - sosteneva ciò che più faceva infuriare i ragazzi del ’77: dietro la rivolta c’erano forze oscure, di cui loro erano semplice, inconsapevole strumento. Ora però Zangheri rivela: “Un’altra leggenda è che io avrei sostenuto la tesi del complotto, l’idea che dietro quelle manifestazioni ci fosse qualcosa di organizzato da forze poco chiare per colpire il Pci. Io quella teoria non l’ho mai sostenuta”. Come nacque, allora? “È un mistero. Ma negli anni mi sono fatto un’idea, mi pare che la teoria del complotto sia nata in ambiente democristiano, e non comunista. E a Bologna, non a Roma. Fu un consigliere di minoranza, un democristiano, di cui però le chiederei di non fare il nome, a sostenerla per primo in una seduta consiliare. Poi quella tesi fu ripresa in un titolo di Repubblica, e quindi dall’Unità. A poco a poco si sparse; per quegli strani meccanismi della memoria orale divenne la tesi di Zangheri. Il cattivo Zangheri che aveva liquidato la protesta come una cosa reazionaria”. Può fornire qualche prova, che non sia ex post? “Ricordo bene in quale occasione lo dissi già allora. Il 13 marzo, due giorni dopo la giornata in cui fu ucciso Lorusso, facemmo un comizio in piazza Maggiore. La città era militarizzata. Il partito mandò da Roma Aldo Tortorella. Eravamo accanto, io e lui, quando dissi qualcosa del genere, cito e memoria, ‘credo ci sia un elemento di riflessione, di disagio vero, nelle proteste dei giovani di questi giorni’. Ma nell’emozione travolgente nessuno prestò particolare attenzione a quelle mie parole”. Le responsabilità del Pci sono il capitolo più spinoso, che Zangheri non elude. “Furono giorni terribili. Lì per lì si dissero cose che ora vengono guardate con distacco, ma allora erano pesantemente condizionate dall’emotività. Il Pci, lei mi chiede. Qualcuno che fece uno sforzo ci fu, per esempio l’articolo di Asor Rosa sulla doppia società, la vecchia sinistra, gli operai, i garantiti del Pci, e la nuova società dei lavori immateriali, della frustrazione giovanile, della disoccupazione che emergeva. Lo dico per onestà, perché si riconosca che qualche sforzo di capire c’era. Anche se era minoritario”. E’ qui che arriva la grande autocritica: “Lo dico anche perché poi, onestamente, una cosa adesso va ammessa senza paure: non è che avessimo capito molto di quei ragazzi, e di ciò che stava succedendo. Il Pci era di un altro mondo... È ovvio che da me non è mai arrivato nessun ordine al pugno di ferro in piazza, ma certo non fummo in grado di capire, non fummo all’altezza di quella sfida”. Zangheri sfata un altro mito: che Bologna fosse teleguidata da Roma, da un asse Viminale-Botteghe Oscure, retto dai cugini Cossiga-Berlinguer. “Berlinguer? Certo, lo sentivo, ero in contatto con lui. Ma non poi così tanto, non come lei potrebbe immaginare adesso. Anche qui vorrei citare un episodio. Quando a settembre si tiene il grande convegno sulla repressione, la città è ancora traumatizzata dai fatti di marzo, e si aspetta un segno. Un segno dai manifestanti, ma anche dall’amministrazione. Bene, in quell’occasione Berlinguer non si fece vedere in Comune, né mandò alcun emissario. Il Pci si tenne alla larga. Voglio dire, a decidere c’eravamo noi. Lo dico anche per non cercare alibi”. S’è mai chiesto il perché di quell’assenza? “Forse l’assenza di Berlinguer era comprensibile, magari temeva che si ripetesse la giornata di Lama all’Università di Roma, che una presenza visibile avrebbe acceso ancor più gli animi. Oppure può darsi temesse un nostro cedimento, che lo scontro sarebbe stato duro, e davvero non si sapeva come sarebbe andata a finire. Per fortuna proprio quella giornata senza incidenti servì, se non altro, a riallacciare un legame a Bologna tra il partito e gli altri”. Zangheri, se ripensa alla giornata in cui fu ucciso Francesco Lorusso, ritiene che qualcosa si sarebbe potuto gestire diversamente? L’anziano professore, cortesissimo, sospira. Ma sul punto non ha altro da dire, ora. In fondo, anche arrivare fin qui non è stato privo di dolore» (Jacopo Iacoboni, “La Stampa” 29/1/2007).