varie, 9 aprile 2005
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Ajmone Giuseppe
• Carpignano Sesia (Novara) 17 febbraio 1923, Romagnano Sesia (Novara) 8 aprile 2005. Pittore. «[...] fu tra i fondatori, nel 1945, della rivista Argine, pubblicata a Novara, nella quale si dibattevano i temi artistici del momento. Nel 1947 firmò il Manifesto del Realismo, insieme a Bergolli, Bonfenti, Dova, Merlotti, Paganin, Tavernari, Testori e Vedova. Il movimento si proponeva una ricerca verso una forma nuova di proporre la realtà, partendo dalla lezione di Picasso. Per questo il manifesto è conosciuto anche con il nome di Oltre Guernica. In quegli anni Ajmone divenne anche consulente artistico della casa editrice Einaudi, suggerendo la realizzazione di copertine di libri ai giovani artisti da lui conosciuti a Brera; una collaborazione che durò fino al 1949. Fu amico di scrittori come Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Carlo Levi, Cesare Pavese, Fernanda Pivano ma non lasciò mai la sua attività di pittore e nel 1948 partecipò alle Biennale di Venezia. Nel 1954 realizzò la sua prima personale nella Galleria II Milione di Milano; nel 1962 partecipò alla XXXI Biennale di Venezia» (’la Repubblica” 9/4/2005). «[...] era piemontese nell’anima, e molto legato ai colori del Novarese, di una Val Sesia che lo annodava ai cangiantismi cromatici di un Gaudenzio Ferrari e del Lanino, anche se trasposti in una sorta di perenne vetrata lirico-astratteggiante, era stato consulente dell’Einaudi, in anni d’oro e conflittuali, per la parte iconografica, le copertine studiate teutonicamente dal mago della grafica Max Hubert. Generoso (perché aveva fatto lavorare molti amici pittori), ma anche inesorabile (’come si può mettere una copertina di Matisse, su un romanzo di Hemingway, me lo spieghi? Un delitto, vieni vieni che ti racconto com’era il tuo Einaudi!”) amico di Vittorini, che lo aveva importato al Politecnico, ma anche di Calvino e di Oreste del Buono, con cui aveva progettato la rivista Quaderni Milanesi, amico-contradditore di Testori (erano entrambi sanguigni ed incendiabili) compagno di strada di Morlotti e Chighine, nipotino inevitabile di Picasso, come tutti in quegli anni, ma meno sclerotizzato e rigido dei Cassinari o dei compagni di Corrente: magari rivitalizzato anche dal respiro spazialista degli altri amici milanesi, Crippa e Dova. Certo, aveva firmato un manifesto dal titolo preoccupante di Realismo, pur in chiave anti-figurativa e contro-guttusiana, ma il vero titolo emblematico era diventato quello più noto di Oltre Guernica. Perché appunto lui guardava sopra le spalle dell’ortodossia ideologica, magari rivolgendosi a García Lorca o all’amato Anderson di Storie di me ed altri racconti (erano gli anni di Uomini e topi). Oggi ci sono soltanto topi, sibilava nella cornetta, ridendo amaro. [...]» (’La Stampa” 9/4/2005). «’Conosco diversi artisti i quali, in camera caritatis, confessano che il massimo scopo della loro vita è fare l’amore. La donna, corpo da concupire e da godere è, giorno e notte, il loro chiodo fisso. Eppure non lo dipingono mai. E allora io ne diffido”, scriveva, nel giugno ”71, Dino Buzzati sul ”Corriere della Sera”, su una mostra di nudi di Ajmone a Milano. E aggiungeva: ”Bacon è l’intimità dell’angoscia; Ajmone è l’intimità del desiderio”. Ecco, in questa frase dell’autore del Deserto dei tartari c’è tutto Ajmone, o meglio, l’Ajmone che, nel ”46, in una mostra in cui esponevano anche Bergolli, Morlotti, Paganin e Testori diede inizio alla sua avventura muliebre, al suo ”tenero interesse per il corpo femminile’ che, poi, dipinse per tutta la vita con ”paranoica ostinazione”. Col passare degli anni il suo interesse rimase intatto. Altrettanto, la maniera di raccontare, di inventare giorno per giorno, di tenere alta la tensione, senza cedimenti o cadute di gusto. Ec co i corpi colti all’alba, distesi, in torsione, di schiena, al risveglio, sul velluto rosso, nel viola della sera. Corpi velati da una luce che, sciogliendosi dentro il colore, li rendeva simili a fantasmi e che, man mano, modulava sino a raggiungere un equilibrio sottile fra soggetto e atmosfera. I corpi affioravano sulla tela come se uscissero da una vasca da bagno per poi riaffondarvi. All’inizio era stato attratto da cubismo e futurismo, dal tonalismo di Corrente, dalla felicità coloristica di Matisse e dal neonaturalismo che aveva coinvolto anche Morlotti. Dopo una breve parentesi astratto concreta, era tornato a una sorta di realismo crepuscolare, all’amore per Bonnard (la luce soffusa). Alla fine, aveva preferito rifugiarsi nell’intimità dei suoi racconti» (Sebastiano Grasso, ”Corriere della Sera” 9/4/2005).