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 2005  aprile 08 Venerdì calendario

La corsa a Roma per il papa, La Stampa 8/4/2005. La Protezione Civile raccomanda di evitare ogni tentativo di penetrare in Roma, sia pure con le sole gambe, in queste due ultime giornate di formidabile restringimento della mobilità personale e meccanica al culmine di un inimmaginabile evento nella storia, molto meno nota di quella militare, dei pellegrinaggi umani

La corsa a Roma per il papa, La Stampa 8/4/2005. La Protezione Civile raccomanda di evitare ogni tentativo di penetrare in Roma, sia pure con le sole gambe, in queste due ultime giornate di formidabile restringimento della mobilità personale e meccanica al culmine di un inimmaginabile evento nella storia, molto meno nota di quella militare, dei pellegrinaggi umani. Tuttavia, se ancora abitassi a Roma, lo stare a vedere, il puro osservare quello che accade, da vicino e senza intermediari, mi piacerebbe. Nel settembre 1599 i romani correvano e si affacciavano per assistere al supplizio orrendo dei Cenci: quel giorno avrei preferito abitare altrove, o avrei chiesto il permesso di dare un bacio a Beatrice. Quel Papa fu spietato nel negare la grazia ai Cenci, nonostante il suo nome di Clemente, ma a quel tempo il parricidio non era ancora diventato un reato da dieci anni circa di detenzione incerta. Amo credere che, al suo posto, Karol Wojtyla avrebbe detto sì alle suppliche degli avvocati dei Cenci. Ma pochi mesi dopo in Campo de’ Fiori fu gettata nel fuoco la maggior mente filosofica venuta ex alto a pensare e a scrivere in lingua italiana, e qui chissà: un Wojtyla avrebbe ben potuto perdonare un parricidio (così come ha perdonato quello compiuto verso lui stesso da un sicario turco) ma l’ex frate Giordano Bruno aveva rinnegato la dottrina della Chiesa, proclamato l’immanenza divina, fatto tremare i fondamenti del dogma, della fede: il loro campione avrebbe perdonato anche questo? E se fosse stato al posto di Pio XII il 16 ottobre 1943 avrebbe comandato all’autista di accompagnarlo, armato soltanto di un crocifisso, al Portico d’Ottavia, sbalordendo i razziatori nazi con la richiesta: se prendete loro, prendete anche me? Credo di sì, questo l’avrebbe fatto. Anche Elio Toaff e qualche altro vecchio dell’ex ghetto lo credono, suppongo. Era della razza che il veggente Rimbaud definisce «di quelli che cantano nei supplizi». Non avrebbe perso l’occasione di offrirsi, esorcizzando col suo gesto inaudito i demoni. Quale differenza c’è tra santità e eroismo? Direi che c’era, in K.W., molto più stoffa di eroe che di santo, ma dico questo perché mi è ben più chiara la nozione di eroe che quella di santo, specialmente nelle definizioni ecclesiastiche e papistiche. Io metto tra i santi non pochi che per la Chiesa sarebbero, sono tuttora, dei rèprobi, o dei medici come Ignazio Filippo Semmelweis, eretico puerperale, martire dell’asepsi, condannato idealmente a morte dai padroni della scienza medica del suo tempo. Come uno degli eroi del secolo XX riesco a comprenderlo molto meglio che come santo tra folle d’ombre di Chiesa romana, da canonizzarsi ipsofacto, come già pretendono i suoi compatrioti. Del resto, eroe non è qualifica che ci impedisca di ripensarlo criticamente: è sempre un rendere, quantunque disarmati, l’onore delle armi - si tratti di un avversario o di un amico. Riflettevo anche su una madornale stupidaggine di Brecht citata spesso con ancor più stupida acquiescenza: «Felici i popoli che non hanno bisogno di eroi». La frase di Brecht, all’indomani di una carneficina mondiale, tra lo scatenarsi di un culto indiscriminato verso i caduti in guerra, aveva una giustificazione; oggi è datata e morta, e offusca il giudizio. Non c’è mai stato tanto bisogno di eroi, un bisogno da cui nessuna nazione può essere esclusa. Ci stanno bravamente rendendo tutti ebeti, passivi, assetati di commercio, di affari che non falliscono, nel raggio mortale del Dio Nulla annunciato da Büchner nella Morte di Danton (allora un Dio «da nascere», oggi cresciuto, e cresciuto in fretta), ma non siamo così bestie come ci vorrebbero parecchi poteri, tra occulti e riconoscibili, e tutti, dopo aver bevuto il vino Doc e la limonata del bar, hanno la stessa sete di prima di Qualcuno diverso da loro (e non uguale, non uno come noi), di qualcuno che venga di lontano, che sappia impugnare una lancia per trafiggere dei draghi - sete di eroi che incrinino l’intollerabile monotonia di un’esistenza da pensionati vegetativi, per la quale si è disposti a votare, ma con dentro la vergogna di averlo fatto, perché è come rinnegarsi in quanto autenticamente uomini. Però l’eroe, quando ci sia, quando compare e attraversa la scena, è sempre tragico, e perde anche quando vince. Naturalmente questo è altro sermone, uno di quelli che non possono mai finire...