Gaetano Di Modica, tSt 6/4/2005, pag. 1., 6 aprile 2005
[Storia dello zucchero] una storia iniziata qualche anno fa (centinaia di milioni? alcuni miliardi?)
[Storia dello zucchero] una storia iniziata qualche anno fa (centinaia di milioni? alcuni miliardi?). C’era dell’anidride carbonica, c’era dell’acqua, c’erano piccole strutture colorate, che, utilizzando la luce del Sole come fonte di energia e combinando due molecole semplici (cosa che fanno anche adesso le piante verdi) ottennero un prodotto più complesso, formato da sei atomi di carbonio, dodici di idrogeno e sei di ossigeno, che non è nient’altro che il nostro zucchero, fonte di energia, sostanza di riserva, capace di trasformarsi in strutture più complesse (la cellulosa, sostanza di sostegno per i vegetali è formata da tante molecole di zucchero legate fra di loro). E in più ottennero anche dell’ossigeno, che contribuì in modo determinante a formare l’atmosfera che ci consente di vivere. Dunque lo zucchero era nato. Ma stava ben nascosto in prodotti naturali, miele, manna, tuberi, farinacei. Dapprima l’uomo andò a cercarlo lì: nel miele e nella manna. I Romani usavano come dolcificante anche il mosto d’uva concentrato: si chiamava «defrutum» ed è l’antenato di quella mostarda piemontese detta «cognà», preparata per concentrazione di mosto d’uva addizionato di pere, mele cotogne (da cui il nome), noci, nocciole. C’era anche lo sciroppo d’acero, usato ancora oggi nella cucina degli Stati Uniti del Nord-Est. In India lo zucchero come tale era già conosciuto. Un generale di Alessandro Magno, Nearco, lo cita nella cronaca di un suo viaggio alle foci dell’Indo (320 a.C.). Parla di «un giunco che stilla direttamente miele senza bisogno di api, dal quale si trae una bevanda inebriante» (un antenato del ruhm?). Gli arabi (lo chiamano «sukkar», poi mediato da Dioscoride nel «saccaron» greco) contribuirono alla sua diffusione in Europa. La canna da zucchero veniva coltivata a Cipro, in Siria e, le Crociate aiutando, in Sicilia e anche in Spagna. Poi vennero i grandi viaggi e la constatazione che le nuove terre scoperte da Colombo si prestavano egregiamente alla coltivazione della canna. Ma a quale prezzo! Bernardin di Saint-Pierre, nel suo «Voyage à l’Ile de France» scriveva nel 1733: «Non so se caffè e zucchero siano essenziali alla felicità dell’Europa, so però che questi due prodotti hanno avuto molta importanza per l’infelicità di due grandi regioni del mondo: l’America fu spopolata per avere terra libera per coltivarli, l’Africa fu spopolata per avere le braccia necessarie alla loro coltivazione!». Lo sterminio delle popolazioni locali, l’importazione di schiavi dall’Africa! Brutti episodi. La richiesta di zucchero cresceva in Europa, anche legata all’arrivo di nuove bevande: tè, caffè, cioccolata. Che lo zucchero fosse legato all’ignobile impiego di mano d’opera schiava era a quei tempi del tutto irrilevante. A fine Settecento c’è una svolta: il chimico Andrea Sigismondo Margraf scopre che la barbabietola europea fornisce lo stesso tipo di zucchero della canna e, qualche anno dopo in Slesia, un suo allievo, Achard, mette su un impianto per la produzione industriale, che in Europa surclassò presto l’importazione dall’America, per i costi inferiori e per gli eventi bellici dell’epoca. Poi, nella seconda metà dell’Ottocento, la storia prese un’altra direzione: intorno al 1880 un chimico americano, Fahlberg della Johns Hopkins University, scoprì che una sostanza sintetizzata per tutt’altro scopo che si era inavvertitamente versato su una mano, aveva sapore dolce. La brevettò nel 1885: era la saccarina, circa 300 volte più dolce dello zucchero! Una cinquantina di anni dopo un altro chimico americano, Audrieth dell’Università dell’Illinois, percepì un sapore dolce in un’altra sostanza che stava preparando, sempre per tutt’altro scopo (sovente le grandi scoperte avvengono per caso al momento giusto con la persona giusta). Era il cicloesilsulfammato di sodio e pure quello entrò nell’uso comune. La caccia al dolce era aperta, anche in considerazione dei problemi dietetici. Si isolarono varie sostanze naturali, polialcoli come mannitolo, xilitolo, sorbitolo, che servivano allo scopo. Ma intanto la ricerca si spostò in un’altra direzione: perché una sostanza è dolce? In tutti i contatti con il mondo esterno il nostro organismo reagisce attraverso stimoli sensoriali che opportuni recettori (occhio, orecchio, naso, lingua) trasmettono a quel grande decodificatore che è il cervello. Che bel cielo blu! Che dolce musica, che buon odore di tartufo, che sapore dolce! Per quanto riguarda i gusti, le nostre capacità di rilevamento sono piuttosto limitate: percepiamo solo quattro sapori fondamentali: amaro, salato, dolce, acido. Sono molti di più gli odori percepiti dai sensori olfattivi: gli intenditori di vino prima ne apprezzano il colore (la vista), poi l’aroma annusandolo e solo dopo lo assaggiano facendolo girare nella cavità della bocca. L’organo deputato a questa valutazione del gusto è la lingua: sulla punta stanno i sensori per il rilevamento del dolce, sotto la lingua quelli per l’acido, ai lati quelli per il salato, e infine, nella parte posteriore quelli per l’amaro. Dunque la percezione del «dolce» è limitata a una zona piuttosto ristretta della lingua. Tre associazioni internazionali si sono dedicate a questo studio. Sono la European Chemioreception Research Organisation, la Association of Chemioreception Sciences e la Japanese Association for the Science of Taste and Smell. Un approccio valido alla correlazione tra struttura della molecola dolce e la sua proprietà è stato proposto nel 1967 da due ricercatori americani, Shallenberger e Acree, che ritennero di individuare una unità strutturale comune a diverse molecole dolcificanti. Questa unità, chiamata «glucoforo», sarebbe costituita da una sequenza di atomi, piuttosto semplice, disposti in modo tale da interagire con analoghi gruppi del chemiorecettore. Si sono definite persino le dimensioni e la geometria dei vari elementi costituenti la molecola dolce e il recettore: un po’ come definire la struttura di una spina elettrica e quella della presa. Se la spina non si adatta alla presa la luce non si accende. Una piccola modifica chimica del sistema «glucoforico», che cambia la struttura della «spina», annulla l’effetto «dolce». Sono in corso ulteriori studi sulla geometria delle molecole dolci, con risultati di grande interesse. Inoltre, un nuovo ramo della chimica, la «chemiometria», studia con metodi matematici e statistici l’effetto delle varie parti delle molecole attive, consentendo di formulare a tavolino il design della ipotetica molecola più attiva di cui effettuare la sintesi. In conclusione, il gusto dolce è un’attrazione fatale e, la chimica aiutando, si possono realizzare per sintesi molecole «dolci» buone per tutti gli usi.