Varie, 5 aprile 2005
EMILIANI
EMILIANI Vittorio Predappio (Forlì) 1 dicembre 1935. Giornalista. Da ultimo scrive sull’Unità • «Ci sono quelli che fanno la gavetta, lunghi anni di precariato, malpagati, in oscure redazioni di provincia. E quelli che cominciano subito dal ”Mondo” di Pannunzio e dall’’Espresso” di Benedetti. Vittorio Emiliani appartiene alla seconda categoria. Sembra toccato dalla Divina Provvidenza. Ha cominciato a Voghera, ma nel giornale di Arbasino. E’ passato da Comunità di Adriano Olivetti. Poi subito con Pannunzio. Ha fatto, giovanissimo, inchieste per ”L’Espresso” insieme a Camilla Cederna. Ha partecipato all’avventura del ”Giorno” di Italo Pietra. Ha diretto ”Il Messaggero” della Montedison riportandolo in attivo. Ha attraversato il giornalismo italiano di qualità. [...] ”[...] ricordo bene Pannunzio che faceva tutto, tagliava perfino le foto. Era un giornale di grande artigianato. Però da lui si riunivano Forcella, Gorresio, Michele Tito, Antonio Cederna, Ernesto Rossi [...] Io collaborai poco. Tra Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, che erano molto amici, c’era un patto di non aggressione: chi collabora al ”Mondo’ non collabora all’’Espresso’ e viceversa. Io scelsi ”L’Espresso’, che oltretutto pagava il doppio. Per un articolo 50 mila lire, più dello stipendio mensile di una segretaria. [...] La mia storia giornalistica comincia a Voghera dove mio padre era segretario comunale [...] sono anche parente del Duce. Mia nonna era cugina di suo padre, il fabbro, un anarchico. Sono andato via quasi subito al seguito di mio padre: Cervia, Urbino, Ferrara, Voghera [...] A Voghera lavoravo al ”Cittadino’. C’era anche Peppino Turani. Frequentavo molto Giuseppe Tarozzi, aspirante giornalista come me. Un gran simpatico, una faccia tosta terribile. Un giorno mi disse: ”Facciamo qualcosa per Comunità’. E facemmo un’inchiesta a quattro mani su Pavia. Poi mi disse: ”Facciamo qualcosa per il Mondo’. E Pannunzio ci propose: ”Fate un’inchiesta su Milano’ [...] Nel fare l’inchiesta su Milano, conoscemmo la Cederna, le parlammo delle coree, degli immigrati, della nuova povertà a Milano. Lei disse: ”Perché non facciamo un pezzo insieme’. Noi rimanemmo sbalorditi, quasi cademmo per terra. Io, Tarozzi, la Cederna e un giovane fotografo occhialuto e bravissimo, Ugo Mulas, girammo per la periferia milanese a bordo di una Giulietta guidata da un mio amico ricco, Beppe Vallini. [...] Facemmo altre inchieste, poi la società si sciolse, cominciai a collaborare per conto mio all’’Espresso’ [...] Quando al ”Giorno’ arrivò Italo Pietra, io entrai in contatto con lui. Mi disse: ”Io ti conosco, ho letto un tuo pezzo sulle ultime mondine’. Cominciai con una rubrica sulla provincia: ”L’Italia che cambia’. Vigevano, Fidenza, Urbino, Cesena. Lunghezza due biro. [...] L’unità di misura del ”Giorno’. Una biro, 20 righe, due biro, 40 righe [...] Per un anno ho anche passato la Borsa, cioè tutti quei numerini delle quotazioni, facendo pure degli errori madornali per cui le Cotoniere Meridionali, un titolo morto, diventavano la sorpresa del giorno [...] Poi tornai a fare quello che mi piaceva: le inchieste. [...] Poi purtroppo arrivò Afeltra. Un distruttore. Io preferii fare il sindacalista per cercare di difendere l’argenteria di famiglia. Quando uscì il titolo ”La polizia espugna la Statale’, capimmo che non c’era niente da fare. Pietra mi chiamò al ”Messaggero’ e ci andai. [...] Ero lì da qualche anno [...] Il giornale perdeva. Sette miliardi nel ”79. Mi chiamò Schimberni. ”Possiamo salvarci?’ [...] Risposi che l’accordo andava trovato con i sindacati. E lui: ”Ma lei li conosce?’. ”Sì’, dico, ”sono amico di Lama, di Marianetti, di Benvenuto, di Carniti, di quelli che contano’. ”Ma lei dirigerebbe il Messaggero’ [...] Cominciò una conflittualità sindacale pazzesca. L’azienda presentò un piano di prepensionamenti dolce ma la reazione fu furibonda: 24 giorni di sciopero scaglionati e 17 di chiusura totale. Venne Lama. Fece un discorso molto duro: ”Questo giornale interessa a noi sindacati perché è un giornale che ci sostiene’. Perdemmo il 30 per cento. [...] Quando Schimberni dette l’annuncio della mia nomina, per non dover subire le reazioni se ne partì per le Filippine. La sua segretaria mi disse: ”Martelli ha telefonato 27 volte per chiedere conto della sua nomina’. Era furibondo [...] sette anni stupendi. Poi De Mita cominciò a rompere le scatole e anche Martelli irrobustì la sua azione. Un giorno Schimberni mi chiese di nominare un vice di provata fede demitiana. Goria lo aveva posto come condizione per un prestito obbligazionario [...] Dissi: ”Presidente, gli dia il mio posto, me ne vado io’ [...] Disse: ”Stabiliremo il modo del suo esodo dopo le elezioni’ [...] La Dc andò malissimo, perse il 6,8 per cento, il mio licenziamento fu rinviato [...] Successe che il giornale andava sempre meglio (guadagnò 100 mila copie), io litigai in maniera sempre più furibonda con De Mita (mi disse che ”Il Messaggero’ era un giornalaccio e che leggeva solo l’oroscopo) e Craxi chiese a Schimberni la mia testa. [...] in Rai sembra a volte di lavorare nella pece [...] Sono a casa a scrivere e mi chiama Luigi Manconi. Dice: ”Non ti ha telefonato nessuno?’. E io: ”No, nessuno’. ”Come mai, adesso mi incazzo’. La sera alle 22.30 telefona Violante: ”Come stai? Avremmo pensato a te come a uno dei cinque consiglieri della Rai’. ”Posso pensarci una notte’. ”No, hai venti minuti’. Andò così. Dopo venti minuti ho accettato” [...]» (Claudio Sabelli Fioretti, ”Sette” n. 22/2000).