Giampiero Boniperti (con Enrica Speroni), Una vita a testa alta, Rizzoli 2003, pagg. 174-178;, 30 marzo 2005
«Mi sono accorto della tragedia guardando la televisione. Ero nella pancia dello stadio, mi muovevo tra la sala dove c’era la Tv e lo spogliatoio
«Mi sono accorto della tragedia guardando la televisione. Ero nella pancia dello stadio, mi muovevo tra la sala dove c’era la Tv e lo spogliatoio. Vedo le immagini e mi sento male. Cerco di parlare con il capo della Gendarmeria perché faccia qualcosa, perché mandi poliziotti ad arginare quelle bestie. Mi ha telefonato più volte, dopo. E l’ho sempre insultato, senza sapermi frenare: ”Quei 39 morti li ha tutti sulla coscienza lei” gli urlavo, perché io ho visto: c’era un poliziotto, uno solo a dividere i tifosi inglesi dai nostri [...] Io non volevo giocare. E non voleva il presidente del Liverpool. Ci hanno convinto, spiegandoci che altrimenti la violenza sarebbe riesplosa, il capo della Gendarmeria e il rappresentante dell’Uefa. E comunque c’era stato l’ordine del ministro degli Interni [...] Quella dell’Heysel è stata la giornata più brutta della mia vita. L’Avvocato, arrivato poco prima del fischio d’inizio, non è stato fatto neanche entrare. sceso dalla macchina, l’hanno informato dei morti, è risalito in macchina ed è ripartito. Suo figlio Edoardo invece, era sul campo e non riuscivamo a distoglierlo da quell’orrore. L’ho fatto rientarre negli spogliatoi e ho dovuto urlare per ordinargli di non muoversi più. Quella sera ho mandato a quel paese anche l’avvocato Chiusano, mio coetaneo e amico carissimo. Ero lì, stralunato, con Matarrese e Sordillo, nessuno parlava; i giocatori della tragedia sapevano poco, ma noi i morti li avevamo visti. Arriva lui e pontifica: ”Ma Giampiero, perché avete giocato? Non era da fare questa partita”. L’ho guardato con rabbia e ho fatto fatica a non dargli un pugno. L’ha capito. E m’ha capito. [...] Chi non era lì quella sera a Bruxelles non può comprendere cosa sia stata quella partita, cosa fosse quell’atmosfera, che incubo abbiamo vissuto. Io stesso quando ho colto le dimensioni del disastro ho detto: ”Non si può giocare”. Ma prima il capo della polizia, poi il sindaco di Bruxelles, poi il delegato Uefa, lo stesso presidente del Liverpool, tutti a spiegare che sarebbe stato peggio... e io mi sono accodato anche perché temevo che, non giocando, i tifosi all’uscita dello stadio acquisissero piena consapevolezza sull’entità della tragedia. Sarebbe stata la guerra. [...] A quel punto, valutato che la finale era meglio disputarla, tutti hanno cercato di vincerla [...] Tra le due squadre e il resto del mondo c’era un vetro. Juventus e Liverpool stavano nell’acquario e percepivano una realtà meno crudele. Noi, fuori, annegavamo nell’orrore. Io li ho visti i morti. Neri, schiacciati, con la bandiera della Juventus avvolta attorno al collo. Io me li ricordo i Casula, papà e figlio. Uno vicino all’altro. Io me li ricordo tutti, perché quando attraversi l’inferno la memoria non cancella più niente [...]».