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 2005  marzo 30 Mercoledì calendario

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Io seguii tutto il cammino bianconero in Coppa: superati l’Ilves Tampere, il Grasshoppers, lo Sparta Praga e il Bordeaux. Ma non andai alla finale: mi trovavo in Messico, a seguire la Nazionale azzurra in tournée, in vista dei Mondiali dell’anno successivo [...] Il giorno della finale, a Puebla era pomeriggio, faceva caldo. L’Italia giocava un’amichevole contro una formazione locale. La voce giunse come una stilettata al cuore: ”A Bruxelles non si gioca, a Bruxelles ci sono dei morti”, ”la furia degli hooligans contro tifosi inermi”, ”i morti sono tutti italiani”. Il viso di Enzo Bearzot, ct azzurro, si trasformò in una maschera di dolore, le rughe si ispessirono. Cercammo di saperne di più dalla televisione. Ma la tv messicana dava soltanto un fermo-immagine, e basta. Una specie di muro. Collegamento internazionale interrotto. Pensai ai miei colleghi, ai miei amici: cos’era successo, cosa stava succedendo in quell’inferno dell’Heysel? Ritornarono le immagini. Si giocava. Assurdo ma vero: si giocava. All’Heysel si giocava a calcio, con i morti e il sangue e il dolore nella curva Z. La Juve vinse 1-0, gol su rigore di Michel Platini, un rigore inesistente. Il giorno dopo, con i colleghi Corbo ed Esposito, andai a Città del Messico. Nell’hotel che avrebbe ospitato la nazionale inglese. Ai bordi della psicina trovai Trevor Francis (a quei tempi alla Sampdoria) da solo. Aveva in mano un giornale: in prima pagina la tragedia belga. I morti italiani. ”Mi vergogno di essere inglese”, mi disse. Soltanto questo. Poi, arrivarono i giocatori bianconeri reduci dalla finale. Cabrini, Tardelli, Scirea, Paolo Rossi e Gentile. Raccontarono di quella stramaledetta notte: ”Non volevamo giocare, ci hanno costretto”. Avevano gli occhi stanchi. E un buco nell’anima. Non sapevano come spiegare. Tornammo dal Messico in silenzio. Povero calcio, poveri noi [...]».