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 2005  marzo 30 Mercoledì calendario

«Il sole stava stava tramontando dietro il settore Z, e il cielo era di un bellissimo rosso. Rosse le nuvole

«Il sole stava stava tramontando dietro il settore Z, e il cielo era di un bellissimo rosso. Rosse le nuvole. Rosse le maglie degli inglesi, di un rosso chimico. Rossi i muri di cemento dell’Heysel. Rosse le nostre facce mentre rotolavamo dai gradini della tribuna stampa per verificare la notizia. ”Ci sono dei morti”. Rosso il sangue che inumidiva le labbra della ragazzina portata fuori a braccia, il corpo di manichino adagiato su una transenna usata come barella, la graziosa bocca appena sporca, quasi un baffo di marmellata dopo la merenda. Rosse le croci sulle divise degli infermieri, larghe lenzuola di fantasmi. Rossa la squadra del Liverpool quando si cominciò a giocare, come se qualcosa potesse ancora cominciare [...] Sotto il cielo rosso sangue, la curva fece la prima onda. Eravamo troppo lontani per distinguere con esattezza la scansione degli avvenimenti, al massimo si poteva intuire. Vedemmo i tifosi del Liverpool lanciare pietre e fumogeni verso gli italiani compressi in un terzo di curva, settore Z. Gli juventini indietreggiarono, e proprio questo incoraggiò gli hooligans che organizzarono una seconda carica, stavolta in massa. Dalla tribuna si indovinava il pericolo, ma lo vivemmo come un’insidia e non come un dramma già compiuto. Vedemmo un groviglio di persone, senza immaginate le decine di cadaveri schiacciati. ”Ci sono morti, tanti morti” gridò qualcuno. Pensai che fosse impossibile. Pensai che tutto questo disturbava l’unica cosa che contasse, cioò l’attesa della più grande partita di calcio di tutti i tempi. Rotolai giù dalle scale e li vidi. Li avevano già portati nello spiazzo di fronte all’ingresso della tribuna. Erano allineati come nelle foto dei massacri in guerra. E nessun morto aveva vicino qualcuno che lo piangesse. Nessun parente riusciva a trovare chi stava cercando. I pochi poliziotti stavano inebetiti, roteando i manganelli nel vuoto. Andavano a cavalo, avanti e indietro, come in un assurdo carosello [...] due barellieri improvvisati avevano appena appoggiato a terra un ragazzo cianotico. Stavo lì e guardavo, guardavo e prendevo appunti, prendevo appunti e lavoravo. Oggi mi sento in colpa per questo. Un medico si avvicinò al ragazzo e gli fece la tracheotomia. Io osservavo una persona che tagliava la gola a un’altra, seppure per salvarla. Osservavo, pensando a come l’avrei descritto. Dopo qualche attimo il ragazzo morì. Tornammo in tribuna. Dettai un lungo servizio per la terza pagina [...] Un collega più anziano piangeva accanto a me. E non solo per i cadaveri, per l’assurda strage. ” finita, adesso è finita”, diceva singhiozzando. Piangeva il suo sogno ucciso. Piangeva perché aveva capito che ognuno di noi, uscendo dall’Heysel, non avrebbe più amato il calcio nello stesso modo [...]».