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 2005  marzo 22 Martedì calendario

[Einstein e i quanti di luce] Nel 1905 Albert Einstein, ventiseienne impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna, fresco di matrimonio e con un figlio a carico, portò a compimento ben cinque scritti di fondamentale importanza, destinati a segnare profondamente la fisica del Novecento

[Einstein e i quanti di luce] Nel 1905 Albert Einstein, ventiseienne impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna, fresco di matrimonio e con un figlio a carico, portò a compimento ben cinque scritti di fondamentale importanza, destinati a segnare profondamente la fisica del Novecento. Nell’ordine: l’articolo sull’ipotesi quantistica della radiazione luminosa, la tesi di dottorato Su una nuova determinazione delle dimensioni molecolari (che sarà presentata all’Università di Zurigo), l’articolo sul moto browniano, quello Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, che è la nascita della teoria della relatività ristretta, infine la breve ma importante nota, in cui si dimostra che l’inerzia di un corpo dipende dal suo «contenuto di energia» e compare per la prima volta la celeberrima equazione E=mc2. Di questi lavori, il primo, Su un punto di vista euristico relativo alla produzione e trasformazione della luce - l’unico che Einstein definì «rivoluzionario» - varrà all’autore il premio Nobel per la fisica del 1921 (assegnato nel 1922). Nell’ottobre del 1900 Max Planck aveva scoperto la cosiddetta legge di radiazione del corpo nero avanzando l’ipotesi, ardita fino a «rasentare la follia» (sono parole di Abraham Pais), che l’energia fosse composta da pacchetti indivisibili di energia: i quanti. Einstein, che almeno fin dal 1901 aveva inziato a studiare con attenzione i lavori di Planck, arrivò tuttavia a enunciare l’ipotesi del quanto di luce seguendo un ragionamento indipendente dalla formula ricavata cinque anni prima dallo scienziato tedesco. L’idea innovativa di Einstein, secondo la quale «l’energia luminosa ha una distribuzione spaziale discontinua», oltre alla sua intrinseca importanza teorica, offriva una spiegazione semplice a numerosi fenomeni «di emissione e di trasformazione della luce»: la regola di Stokes (fisico britannico) per la fluorescenza, la ionizzazione di un gas mediante radiazione ultravioletta e l’effetto fotoelettrico, scoperto nel 1888 dal fisico tedesco Wilhelm Hallwachs. L’ipotesi di Einstein non significava in nessun modo un ritorno a una teoria corpuscolare della luce di stampo newtoniano, ma di un audace passo concettuale, che apriva orizzonti nuovi. L’articolo del 1905, congiuntamente a quello pubblicato l’anno successivo (Sulla teoria dell’emissione e dell’assorbimento della luce), dimostrava infatti in modo incontrovertibile l’incompatibilità fra la nascente teoria dei quanti e la teoria elettromagnetica di Maxwell, che rappresenta la vetta forse più alta della fisica del secolo XIX. Tanto innovative erano le idee sviluppate nell’articolo sul «quanto di luce», che la comunità scientifica - che pure si dimostrò, nel complesso, assai aperta nei confronti della relatività ristretta - reagì con un misto di scetticismo e ostilità. Significativa è la testimonianza del fisico Robert Millikan (il primo a effettuare, nel 1909, la prima misurazione diretta della carica dell’elettrone): «Passai dieci anni della mia vita a sottoporre a controlli quell’equazione di Einstein del 1905; contrariamente a ogni mia aspettativa, fui costretto nel 1915 ad ammettere che era verificata con certezza, nonostante sembrasse assurda poiché contraddiceva tutto ciò che si sapeva sull’interferenza della luce». Einstein ritornò a più riprese ad affrontare il problema del quanto di luce negli anni compresi tra il 1909 e il 1923. Ciò che inizialmente era concepito come un pacchetto di energia si trasformò così, passo dopo passo, in un’entità se possibile ancora più assurda, almeno agli occhi di molti fisici dell’epoca: una particella dotata di energia e di quantità di massa, una sorta di pallottola di luce, il cui comportamento viola in tutto e per tutto la fisica classica (tanto per dire, la sua massa a riposo è nulla) ma è perfettamente compatibile con le leggi della relatività. La tenace resistenza della maggior parte della comunità scientifica nei riguardi di questa particella fu vinta, quasi definitivamente, nel 1923, quando Arthur Compton scoprì l’effetto che porta il suo nome: la diffusione di un fascio di raggi X che incide su una lamina si riusciva a descrivere, in perfetto accordo con i dati sperimentali, in termini delle collisioni tra elettroni e quanti di luce. Pochi anni dopo, nel 1926, queste particelle sarebbero state battezzate con il nome che ancor oggi le indica: fotoni. Questo termine, infatti, fece la sua prima comparsa in un articolo, The conservation of photons, del chimico fisico americano Gilbert Lewis, in cui si avanzano alcune idee - destinate a cadere quasi immediatamente nel dimenticatoio - sugli «atomi di luce». Il concetto di fotone, mostrando che la radiazione elettromagnetica ha comportamenti, nel contempo, ondulatori e corpuscolari, svolse un ruolo fondamentale per lo sviluppo della meccanica quantistica. Nel 1924 l’aristocratico francese Louis-Victor de Broglie si addottorò a Parigi presentando una tesi estremamente originale, nella quale avanzava l’ipotesi che non solo la luce ma anche tutte le particelle dotate di massa (ad esempio, gli elettroni) avessero carattere ondulatorio. Prima della discussione, il relatore Paul Langevin, forse un po’ disorientato dalla novità delle idee del brillante studente, volle inviare inviare una copia della tesi a Einstein con la richiesta di un parere. Einstein rispose con un giudizio estremamente lusinghiero, che sicuramente fece inorgoglire il giovane de Broglie: «Lei ha sollevato un lembo del grande velo». A queste parole divenute ormai celebri si ispira direttamente il titolo Il velo di Einstein dell’affascinante saggio che il fisico austriaco Anton Zeilinger ha dedicato al «nuovo mondo della fisica quantistica». A dispetto di essere uno dei tre padri della teoria dei quanti e l’unico padrino della meccanica ondulatoria, Einstein mantenne, almeno dal 1927 fino alla morte, un atteggiamento estremamente critico nei confronti della meccanica quantistica e, in particolare, avversò aspramente quella interpretazione in termini probabilistici della teoria, la cui formulazione è dovuta principalmente a Niels Bohr. Una volta sollevato, il «grande velo», gli scienziati andavano infatti scoprendo un universo retto da princìpi - quello di indeterminazione di Heisenberg o quello di complementarità di Bohr - che cozzavano con le concezioni di Einstein, convinto che il mondo fosse «realtà» e non «possibilità», come sembrava invece suggerire la fisica quantistica. Per ironia della sorte (o forse a dimostrazione della grandezza del suo genio) il tentativo più sottilmente argomentato di Einstein per attaccare la meccanica quantistica produsse una sorta di effetto boomerang, diventando il punto di partenza di ricerche che avrebbero condotto a idee radicalmente nuove sul tempo e sullo spazio. In effetti, l’articolo di Einstein in collaborazione con i fisici Nathan Rosen e Boris Podolsky La descrizione quantistica della realtà può essere considerata completa?, pubblicato nel 1935, fu riesaminato criticamente nel 1964 dal fisico irlandese John S. Bell. Le concezioni innovatrici di Bell ispirarono una serie di esperimenti (quelli più famosi furono effettutati nei primi anni ’80 da Alain Aspect a Parigi), che fornirono prove solidissime a sostegno del carattere non locale della meccanica quantistica evidenziando un effetto - il cosiddetto entanglement - che Erwin Schrödinger nel 1926 aveva definito il «perno della fisica quantistica». Anton Zeilinger stesso ha avuto un ruolo da protagonista in questa storia (che nel suo libro narra, infatti, con straordinaria chiarezza e competenza). Nel 1985 eseguì infatti alcune importanti ricerche, in collaborazione con Daniel Greenberger e Michael Horne, sull’entanglement di tre particelle e nel 1997 il suo gruppo di ricerca, a Vienna, fu il primo (contemporaneamente al gruppo guidato a Roma da Francesco De Martini) a riuscire a teletrasportare un fotone. Un secolo è trascorso da quando Einstein propose la rivoluzionaria idea del fotone. Le prospettive dischiuse dalla meccanica quantistiche lasciano oggi intravedere un universo assai differente da quello che poteva immaginare il giovane impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna. Suggerisce Zeilinger, emendando Wittgenstein: «Il mondo è tutto ciò che accade, e anche tutto ciò che può accadere».