19 marzo 2005
Tags : Chahdortt. Djavann
Djavann Chahdortt
• Nata in Iran nel 1967. Scrittrice. «Considera il velo musulmano ”una macchina da guerra” contro la dignità femminile, mette in dubbio l’esistenza di un Islam moderato, denuncia l’esistenza di una lucida strategia per l’espansione del fondamentalismo in Europa. La sua polemica è aspra quanto quella di Oriana Fallaci, cui molti in Francia l’hanno paragonata. Ma la voce di Chahdortt Djavann viene dall’interno stesso del mondo islamico. Nel suo Paese d’origine, l’Iran, ha vissuto sotto il brutale regime teocratico degli ayatollah, ha subito l’obbligo di portare il chador. E ora mette in guardia l’Occidente contro l’errore di sottovalutare il fanatismo islamista. Quando il velo è stato bandito dalle scuole pubbliche francesi, Djavann non ha criticato il divieto, ma la sua portata circoscritta. Nel rovente pamphlet Giù i veli!, pubblicato in Italia [...] dall’editore Lindau, ha sostenuto che alle famiglie musulmane non doveva essere permesso di imporre alle figlie minorenni quel segno di sottomissione. [...] una beffa atroce per Djavann, che odiava indossare il chador, assistere allo spettacolo di adolescenti che rivendicano il diritto di mettersi il velo in nome della propria fede. Quelle ragazze, avverte, spesso sono solo lo strumento di chi diffonde una visione del mondo profondamente misogina e autoritaria. Il velo, spiega Djavann, sta a significare che la donna è ”un essere impuro”, che la semplice vista dei suoi capelli ha un carattere peccaminoso. Così il corpo femminile viene ridotto a bene materiale riservato solo ai maschi islamici, perché una musulmana non può sposare chi professa un altro credo. Quindi il velo equivale a una ”marchiatura delle donne” contraria al principio di eguaglianza tra i sessi: è il simbolo intimidatorio dell’espansione di un sistema culturale chiuso e oppressivo. In Europa l’integralismo adotta il gergo dei diritti umani, ma Djavann ne evidenzia la doppiezza: ”Quando il discorso islamico dice libertà, bisogna intendere la libertà dei dogmi islamici”. Allo stesso modo è ingannevole la retorica identitaria con cui i fondamentalisti si rivolgono ai giovani di origine africana o asiatica residenti in Europa. Lungi dal valorizzare le radici culturali di quei ragazzi disorientati, si vuole appiattirle sulla sola dimensione confessionale, come se non esistessero differenze fra turchi, marocchini, senegalesi, egiziani, iraniani, curdi, somali, algerini, pakistani. L’obiettivo è fare dell’Islam ”il riferimento unico, il segno di riconoscimento, la patria comune” dei musulmani immigrati in Europa, in modo da impedire la loro integrazione nei Paesi di residenza e trasformarli in una docile massa di manovra al servizio di ”una concezione iniziatica, totalitaria e imperialista della religione”. Vibra nelle pagine di Djavann uno spirito illuminista, che non concede alle fedi rivelate il beneficio dell’innocenza. Se il messaggio di Maometto non coincide con il fondamentalismo, osserva, ne è comunque la necessaria premessa: ”All’origine dell’islamismo vi è l’Islam. Le religioni non possono assolversi così facilmente dalle diverse interpretazioni alle quali hanno dato o danno luogo”. Un’evoluzione tollerante dell’Islam analoga a quella del cristianesimo, secondo Djavann, sarà possibile solo se i Paesi musulmani accetteranno la libera discussione in campo religioso, se si apriranno a ”filosofie che mettano in causa la sacralità del Corano”. Mentre molti occidentali proclamano la morte del pensiero laico, una donna di origine iraniana lo rilancia come unico valido antidoto all’oppressione della teocrazia» (Antonio Carioti, ”Corriere della Sera” 19/3/2005).