Varie, 19 marzo 2005
CALABRÒ Corrado
CALABRÒ Corrado Reggio Calabria 13 gennaio 1935. Giudice. Dal 2005 presidente dell’Authority delle comunicazioni • «Quando il ministro Gasparri ne annuncia la nomina lo qualifica subito come ”un grande giurista”. E ”di grandissima qualità”. Grandissima, di Corrado Calabrò, è sicuramente la funambolica capacità di essere magistrato amministrativo, grand commis dello Stato, collaboratore fidato di importanti uomini politici a cominciare da Aldo Moro di cui fu per cinque anni, erano gli anni ”60, capo della segreteria tecnica e giuridica. Poi ci furono Taviani, Vittorino Colombo, Marcora, Pandolfi, Misasi, Galloni. Tutti targati dc. Ma a compensare pure Maccanico e Pagliarini. E fin qui nessuna meraviglia visto che l’uomo […] è laureato in legge (con 110 e lode ci tiene a mettere in risalto la biografia ufficiale), è entrato a far parte del Consiglio di Stato e lì ha svolto gran parte della sua carriera di toga amministrativa a mezzo servizio con la politica prima di approdare, nel 2001, alla presidenza del Tar del Lazio. Ma a fermarsi qui di Calabrò non si direbbe un bel nulla. ”Mi spiace lasciare il Tar perché dopo l’astrofisica e la poesia è l’attività più appassionante che io conosca” dicevasubito dopo la notizia della nomina all’Authority delle comunicazioni. E ci teneva a ricordare subito che lui è sì magistrato (tra gli amici più cari del famoso giudice Corrado Carnevale), ma anche poeta. Poeta e romanziere controverso capace di presentare le sue opere in parterre romani d’eccezione, dove non manca mai un suo eccellente protettore, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. Letta compare quando si leggono in pubblico le sue poesie che la Mondadori raccoglie amorosamente. Il volume s’intitola Una vita per il suo verso, mette insieme rime dal ”60 al 2002, contiene versi del tipo ”Di te io so quello che ne sa il vento/molando al tornio l’orlo della bocca / della vena che pulsa in fondo al pozzo”. Letta non si perde una parola ed è attento come quando, anno dopo anno, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tar, Calabrò elenca noiosamente le cifre e si lamenta per la mancanza d’un organico adeguato. Dice l’11 febbraio 2004, anche di fronte a Ciampi: ”Il sistema della giustizia amministrativa funziona, ancora e malgrado tutto, anche se la situazione è precaria: dal ”78 il numero dei magistrati assegnati a questo Tar è sempre lo stesso, 50, 55 al massimo, ma ne servirebbero dieci volte tanto”. Peccato che Calabrò sia uno che di lavori ne fa proprio tanti, compreso quello di dedicarsi senza risparmio alle cause arbitrali, quelle che […] hanno spaccato la categoria dei magistrati amministrativi, da una parte i contrari, dall’altra i favorevoli. E lui, che nel solo 1991 era riuscito a portarsi a casa collaborazioni per 36 miliardi delle lire di allora, si è ritrovato come presidente del Tar del Lazio a pronunciarsi su chi dovesse avere ragione tra i contendenti. Ma arbitrati, presenza nelle commissioni di studio legislative, vita associativa tra le toghe finiscono nell’ombra rispetto alle sue performances di romanziere che lo hanno reso famoso nel ”99 quando diede alle stampe il suo capolavoro, quel Ricorda di dimenticarla pubblicato dalla Newton Compton, che ha rischiato di metterlo in serio urto perfino col Vaticano. Piccato per le descrizioni osé l’Osservatore romano, commentando i premi Strega di quell’anno tra cui il lavoro di Calabrò, contestò romanzi in cui prevaleva un erotismo ”sperticato, volgare, ingiustificato”. Storia del matrimonio destinato a finire malamente tra Alceo e Leda, il libro s’annunciò subito sin dal risvolto di copertina: ” la storia di un palpitante erotismo la quale man mano trasmuta nel racconto sognante d’un amore esclusivo che incalza in un lucidissimo delirio”. E la descrizione senza veli della passione di lui (’Alceo si ritrovò le labbra pubiche di lei sulle proprie labbra”) e della consorte (’Il suo utero inguainava il membro di lui come un guanto”) agitarono una breve stagione di premi letterari. A margine dello Strega un polemico Calabrò si lamentava pure, e ipotizzava complotti che alla fine lo avevano condannato a perdere» (Liana Milella, ”la Repubblica” 19/3/2005). «[…] Nel 2003 il ”Corriere della Sera” (inchiesta di Gian Antonio Stella) dimostrò come Calabrò fosse già nel 1995 il magistrato più impegnato nei gabinetti ministeriali (11 anni di incarichi) di tutta Italia, ne seguirono poi altri. E che svolse ”ben 13 arbitrati, una miriade, per un totale di 36 miliardi di lire nel solo 1991”. Così replicò allora Calabrò: ”Che il numero 13 possa definirsi una ”miriade’ (nel sistema greco= 10 migliaia, nel linguaggio comune= grande moltitudine, ad esempio di stelle) sarà anche un’opinione ma certo non basata sulla matematica. I 36 miliardi fu l’importo della controversia, non quello dell’onorario, al quale vanno tolti tre zeri” (’vogliamo dire che sono tantini, per chi conserva posto e stipendio?” controreplicò Stella) Ma Calabrò, lo certificano due curricula distinti come se appartenessero a persone diverse, non è solo (lo sillaba con orgoglio) ”l’ex capo della segreteria tecnico giuridica di Aldo Moro tra il 1963 e il 1968” o ”il presidente di sezione del Consiglio di Stato a 41 anni”. Il Calabrò bis è letterato. L’espansività si matura in entusiasmo: ”Le mie prime due passioni sono l’astrofisica, con la formazione delle stelle e la loro fine, e la poesia”. Ecco la seconda autobiografia, puntualmente citata a memoria: ”Diciotto volumi di versi tradotti in quindici lingue, la prima raccolta me la pubblicò a vent’anni la grande Guanda di Parma, sa, quella di Garcia Lorca e di Prevert... Mi hanno attribuito la laurea in letteratura honoris causa all’università Mechnikov di Odessa nel 1997 e alla Vest Din di Timisoara nel 2000”. Chiedergli come faccia il Calabrò magistrato a coabitare col Calabrò poeta laureato nell’ex Est significa ritrovarsi in una figurazione poetica: ”Sono come due fratelli siamesi uniti dalla schiena che tirano in direzione opposta”. Ovvero? ”La legge è un’attività razionale che dà certezza. La poesia monta dal subliminale, tormentata dall’inquietudine e da una ricerca che mai approda a una conclusione, è sempre tendenza verso qualcosa che ci manca. Il senso del mancante spinge il poeta. Il giudice, interpellato, deve dare invece una risposta di certezza”. Non di verità? La mano di Calabrò cerca la raccolta Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori: ”La verità non è in dotazione all’uomo. Quindi nemmeno al giudice”. […]» (Paolo Conti, ”Corriere della Sera” 19/3/2005).