Maria Silvia Sacchi, ཿCorrierEconomia 5/7/2004; Giovanni Vigo, ཿCorrierEconomia 4/10/2004, 5 luglio 2004
Il tessile-abbigliamento è per l’Italia ciò che il petrolio è per altri Paesi. Il petrolio, però, è fisicamente in un posto, mentre il tessile-abbigliamento si può delocalizzare
Il tessile-abbigliamento è per l’Italia ciò che il petrolio è per altri Paesi. Il petrolio, però, è fisicamente in un posto, mentre il tessile-abbigliamento si può delocalizzare. E delocalizzare sembra diventato l’imperativo categorico delle imprese che vogliono sopravvivere alla concorrenza internazionale. Nel 2002 il costo medio di un’ora di lavoro nell’industria manifatturiera americana era di 21,37 dollari; nell’Ue di 19,87 dollari (con una punta di 24,31 in Germania); in Giappone di 19,01 dollari. Nei Paesi dell’Europa orientale si aggirava intorno ai 3-4 dollari mentre in India e in Cina gli operai si accontentavano di 0,3-0,4 dollari. L’Osservatorio europeo di Dublino ha calcolato però che soltanto il 4,8 per cento dei posti persi negli ultimi anni è imputabile alla chiusura di aziende che si sono trasferite all’estero, un vuoto che in un’economia più dinamica di quella europea sarebbe stato facilmente colmato. Ci sono dunque buone ragioni per non riversare ogni colpa sulla delocalizzazione; e ci sono anche buone ragioni per sostenere che l’esodo delle aziende non è un problema inedito che ci trova perciò impreparati.