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 2005  marzo 13 Domenica calendario

Mascarello Bartolo

• Nato a Barolo (Cuneo) il 18 ottobre 1926, morto a Barolo (Cuneo) il 12 marzo 2005. «[...] uno dei più famosi produttori di vino piemontesi [...] socialista libertario, era un intellettuale del vino. Autodidatta, amico di Nuto Revelli, nella sua casa è passata [...] gran parte dell’intellighenzia italiana da Gadda a Bobbio, da Giulio Einaudi a Vittorio Foa, da Pietro Nenni ad Antonio Giolitti. Un contadino intellettuale, e viceversa, dalla cui cantina uscivano [...] vini superbi, presenti nei migliori ristoranti del mondo. Un piccolo produttore, 35 mila bottiglie l’anno, antesignano del boom del vino piemontese. E che ammetteva di diventare conservatore solo se si parlava di vino: Mascarello era infatti considerato il capofila dei ”tradizionalisti” del Barolo, nemici dei nuovi metodi di invecchiamento e vinificazione e, soprattutto, delle piccole botti francesi, le ”barrique”. Fu lui a coniare lo slogan ”No barrique, no Berlusconi” che disegnò personalmente sulle etichette delle sue bottiglie durante la campagna elettorale del 2001. Gliele fecero ritirare dal mercato. [...]» (m. trab. ”la Repubblica” 13/3/2005). «[...] era uno dei quei rari uomini che conoscono il luogo in cui sono nati e vivono, di cosa è fatta la loro terra e le piante e gli uomini che ci vivono, come bisogna viverci e vestirsi, con il bunet, il cappello a visiera sempre in testa, la camicia e il pullover di morbidi grigi. [...]» (Giorgio Bocca, ”la Repubblica” 13/3/2005). «[...] le sue colline le conosceva a memoria, le aveva camminate e difese. Ci era nato in piena vendemmia, da una famiglia contadina di idee socialiste. Il nonno Bartolomeo, fu presidente della cantina sociale, il padre Giulio divenne il sindaco del paese dopo la Liberazione. Amico di Nenni e di Vittorio Foa, portava il figlio, Bartolo in piazza Savona, ”il salotto” di Alba, all’incontro con i grandi vinificatori: i Pio Cesare, i Cappellano di Serralunga, i Cordero di Montezemolo, i Burlotto. ”Mattinate che valevano come lezioni di enologia, perché la scuola enologica mica l’ho fatta” raccontava Bartolo agli amici. Le regole del mercato erano spietate. I mediatori imponevano i prezzi e speculavano sul bisogno di vendere dei contadini. Bastavano due giornate di pioggia far crollare le quotazioni dei grappoli del nebbiolo. I Mascarello furono tra i primi vignaioli a mettere con orgoglio il proprio nome su un’etichetta di Barolo. In quella casa dove c’era più libri che bottiglie passavano in molti: intellettuali e contadini. Conosceva Giolitti e Einaudi. Bartolo frequentava d’estate il giardino dell’albergo di campagna delle sorelle Burlotto a Verduno dove ogni domenica si ritrovano in ”villeggiatura” personaggi come Nuto Revelli e il pittore Pinot Gallizio. Passava spesso anche Giorgio Bocca, ex partigiano che dopo aver tentato di vendere vino a Cuneo, acquistandolo all’ingrosso a Narzole, si era dato con più successo al giornalismo. Si discuteva di politica tra una ”toma”, una fetta di salame e una bottiglia buona. Ma erano discorsi ”alti” di dignità e giustizia sociale che Bartolo metteva in pratica creandosi una cerchia di amici-clienti. Sono loro ad aver diffuso negli anni la sua fama di produttore serio ed eccellente. Una notorietà persistente e sottile, mai gridata, ma che ha fatto lo stesso il giro del mondo, nonostante Mascarello non partecipasse a fiere né avesse rappresentanti. Come spiegare altrimenti il viaggio di quei due giapponesi partiti da Tokyo per Roma e poi a Torino e finalmente arrivati in paese in taxi per conoscere, con inchini e ossequi il ”molto onorevole padre del Barolo”. Onorevole non lo divenne per un soffio, quando fu candidato per lo Psiup. ”Resto a Barolo e combattere le mie battaglie. Sono un bastian contrario, mi devono prendere così”. Non lo spaventava la polemica. In cantina era un ”conservatore”. «Gli altri selezionano le uve vigna per vigna, danno ai vini quei profumi di legno delle barrique, controllano le fermentazioni, aggiungono vini di altre uve. Io no, il mio Barolo è frutto dalla saggezza e dell’esperienza di chi ci ha preceduto e non lo cambio”. Furono gli anni della vivace querelle tra innovatori e tradizionalisti. Con Elio Altare, il capo dei ”giovani barolisti” si creò una sorta di sfida alla Coppi e Bartali. Per i primi le barrique erano un’opportunità in più, per Bartolo una inutile ”intrusione”. Nel dicembre del 2002, i due si incontrarono pubblicamente e si ”capirono”: entrambi innamorati delle vigna e delle loro colline. Quelle stesse che Bartolo difendeva con furiose polemiche contro i capannoni. Se la prese anche con gli Antinori, i marchesi toscani, rei di aver costruito ad Alba una cantina in prefabbricati di cemento. Un giorno al Salone del Gusto a Torino spiegò così il Barolo. ”Aprite una bottiglia senza fretta, fatelo respirare. Versatelo nel bicchiere e ammiratene il colore. Ci vedrete dentro i filari e la gente che ci lavora. Poi bevetelo, il primo sorso in silenzio e a occhi chiusi: sarà lui a parlarvi”» (Sergio Miravalle, ”La Stampa” 13/3/2005). «[...] aveva una vera passione per il proprio lavoro ed era pienamente conscio della valenza culturale che il suo essere produttore di vino comportava. Non dimentichiamoci che era figlio d’arte, di quel Giulio Mascarello vignaiolo straordinario e appassionato, socialista della prima ora e sempre rigoroso nelle sue convinzioni, anche durante gli anni del fascismo. E il nonno, Bartolomeo Mascarello, fu per diversi anni cantiniere della piccola Cantina Sociale di Barolo. Quest’eredità l’ha portato ad avere idee molto chiare rispetto alla sua filosofia di produttore: memoria storica e puntuale ricercatore di ottima qualità. La sua contrapposizione ai metodi di vinificazione più moderni, all’utilizzo delle barrique, non significava che Bartolo fosse ”conservatore”, ma era il modo di essere di una persona che aveva un’enorme rispetto per la storia e la cultura e non si faceva certo incantare dalle mode del momento. Da questo punto di vista tutte le sue battaglie sono state guidate dagli stessi principi, sia che si scagliasse contro i capannoni che deturpano il paesaggio langarolo, sia che ironizzasse causticamente sulla condotta di certi politici di oggi. Bartolo amava la Langa come pochi altri possono dire di farlo, ne era figlio rispettoso. Ma la Langa amava Bartolo, e questi giorni di lutto lo dimostreranno, perché lui sapeva interpretare lo spirito profondo della sua gente come solo un grande intellettuale sa fare. Nella sua casa sono passati uomini di cultura e politici importanti, ma ci sono stati molti più contadini e viticultori, come Bruno Boschi detto Brunone, che conosceva l’arte dell’innesto meglio di tutti, o come il maestro Arnaldo Rivera, fondatore della Cooperativa Terre del Barolo e ledaer indiscusso di cinquecento viticultori in Langa. A queste figure ed a Bartolo Mascarello i giovani produttori e contadini di Langa dovranno sempre guardare con riconoscenza e gratitudine, perché essi sono stati i veri artefici del riscatto di queste terre» (Carlo Petrini, ”La Stampa” 13/3/2005). «[...] era contro la fretta dei tempi, contro le accelerazioni tecnologiche che rendono più sbrigativo e impersonale il lavoro. Ha sempre ignorato la pubblicità e servito una piccola clientela affezionata, che da ogni parte d’Italia e del mondo arrivava direttamente a Barolo per acquistare anche poche delle sue 30 mila bottiglie l’anno. A dar vita alla cantina era stato il padre Giulio, dopo la Prima guerra mondiale. Lui raccolse l’eredità e vi dedicò tutta la vita, nel solco della tradizione e della tutela dell’ambiente. [...] Per lui l’enologia non era una scienza in evoluzione che andava aggiornata. Non si doveva rompere con l’esempio lasciato dai vecchi vignaioli di famiglia, da suo padre, da suo nonno e da tutti quei parenti con la faccia piena di rughe che ti guardavano dalle fotografie appese nel suo studio. Negli ultimi anni, complice la malattia, passava molto tempo a disegnare le etichette delle sue bottiglie con battute sferzanti contro la civiltà dei consumi, o a scrivere articoli per la rivista che aveva fondato con un gruppo di amici. [...]» (Roberto Fiori, ”La Stampa” 13/3/2005).