Varie, 3 marzo 2005
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Messina Nico
• Potenza 1 dicembre 1922, Genova 27 febbraio 2004. Allenatore di basket. Calciatore di buon livello in gioventù, preferì dedicarsi alla carriera di allenatore. Era soprannominato il «ginnasiarca». Allenatore e preparatore atletico, negli anni ’60 approdò a Varese dove il commendator Borghi gli affidò parecchi atleti, anche di boxe, canottaggio e calcio. Dopo un’esperienza nel settore giovanile dell’Ignis, nel gennaio 1968 subentrò a Tracuzzi nella guida della prima squadra di pallacanestro e l’anno seguente vinse lo scudetto. Nel 1970 lasciò la panchina ad Aza Nikolic per assumere il ruolo di direttore tecnico. Nel frattempo, aveva continuato a collaborare con il Varese Calcio da preparatore atletico. Allenò la Virtus Bologna (’72), e poi tornò a Varese nel ’77/ 78, rivincendo il titolo. Dopo quell’esperienza, allenò ancora a Rieti, Brindisi, Napoli e Torino (donne). «Colui che scoprì Meneghin e un’infinità di cestisti (Raga, Bovone, Ossola, Malagoli, Caglieris, Joe Bryant e tanti altri...), un uomo che fu personaggio di sport a tutto tondo. Definirlo allenatore di basket, cosa che in realtà fu principalmente, perché la pallacanestro è stata il grande amore del ”prof”, è infatti riduttivo. Per scherzo, lo chiamavano ginnasiarca, ma il termine va inteso nell’accezione nobile: ovvero quella di una figura dalle qualità multiformi, quella del preparatore poliedrico capace di seguire con competenza calcio, basket, boxe, canottaggio. Immaginatelo negli anni 60 e 70 e capirete quanto fosse all’avanguardia: Giovanni Borghi, patron della Ignis, gli affidò gran parte dei suoi atleti. E a Varese lasciò un segno profondo pure nel calcio e in una squadra ”provinciale” che arrivò fino alla serie A, sfidando con successo le grandi. Nico Messina era nato a Potenza, ma girò l’Italia e mise le radici a Genova (dove è mancato). Iperattivo, istintivo, cocciuto, ebbe un’esistenza rocambolesca. Nel 1935 gli venne la folgorazione di partecipare alla guerra d’Africa: sei volte scappò di casa, calandosi dalla finestra con il lenzuolo, alla settima la fuga riuscì. Si ritrovò a Eboli mentre Mussolini arringava le truppe; facendosi largo, arrivò davanti al Duce chiedendogli di essere arruolato. Acciuffato per un orecchio e rispedito a casa, non si arrese. Finì che la Domenica del Corriere dedicò una copertina a un ragazzo che andava all’assalto degli abissini: era lui... E una volta, a Madrid, nell’hotel della Ignis, entrò il re in esilio. Messina corse da lui: ”Sua Maestà, come sta?”. Gli sfottò della squadra furono feroci, ma il Tigre ha sempre difeso le scelte, ideologiche e di vita: ”Certe esperienze mi hanno dato il senso della decisione e della disciplina”. Borghi stravedeva per lui, soprattutto quando, ”a rischio di licenziamento, se la mossa non fosse riuscita”, decise di spedire Bovone a Milano, di richiamare Ossola e di lanciare Meneghin. Il talento di Dino gli apparve come una folgorazione, ma per verificarne la coordinazione lo obbligò a correre, in pieno agosto, con un cappotto addosso. Tanti dissero che la Ignis, timonata prima da solo e poi come d.t. di Nikolic, e infine la Mobilgirgi (lo scudetto del ’78 fu l’ultima zampata) si allenavano da sole. Messina ha sempre fatto spallucce (’Pareva che comandassero i giocatori, ma alla fine imponevo le mie decisioni”) e, alla resa dei conti, ha conquistato due scudetti e una Coppa dei Campioni. Tanti soloni che l’hanno censurato non hanno nemmeno vinto un torneo dell’oratorio [...]» (Flavio Vanetti, ”Corriere della Sera” 3/3/2005). «[...] racconta Sandro Gamba che lasciò proprio a Messina la Mobilgirgi nel 1977 [...] ”[...] Quando mi sostituì a Varese ebbe l’umiltà di prendere una squadra che andava già bene, senza voler inventare niente, e gestirla per farla vincere ancora. Mi ricordo che una volta, quando era a Bologna e io a Milano, vidi il segnale che utilizzava per comunicare un cambio di difesa alla squadra in campo: tirò fuori dalla tasca un biglietto da 10.000 lire... Ognuno ha i suoi sistemi, ma quello era una novità assoluta. Aveva il bernoccolo del rapporto con i giocatori da cui infatti riusciva a ottenere il meglio. E’ stato capace di fare l’allenatore condividendo le decisioni con i giocatori. Lo posso confermare: è difficilissimo”. ”Infatti – conferma anche Aldo Ossola, mente di quella Varese – la nostra era una squadra che sarebbe potuta andare in campo da sola. Messina accettava consigli da tutti. Mi ricordo che con lui si compì un autentico salto di qualità sotto il profilo della preparazione atletica. Era un insegnante di educazione fisica e con i suoi allenamenti abbiamo imparato a memoria i gradoni del palazzetto dello sport, tante erano le volte che li dovevamo percorrere in lungo in largo”. ”La prima partita del campionato 1968/69 – ricorda Ottorino Flaborea, uno dei terminali d’attacco di quella Varese tricolore – andammo a Cantù fresca campione d’Italia. Vincemmo contro ogni pronostico 62-58. Eravamo preparati perfettamente, in difesa non concedevamo niente. Mi ricordo che quell’estate, in ritiro con la Nazionale, Nane Vianello mi disse: ’Vieni da noi al Simmenthal Milano, a Varese andate in B’. Abbiamo vinto il campionato proprio davanti a Milano. Nico era proprio una brava persona, umile soprattutto”. Umile, umiltà. Chiunque lo ricorda così. Anche Mabel Bocchi che lo ebbe come tecnico a Torino: ”Aveva un entusiasmo incredibile, come se fosse a inizio carriera – racconta la ex giocatrice pluriscudettata a Sesto San Giovanni – . Aveva una grande voglia di comunicare e sapeva costruire un buon rapporto con la squadra. E non era facile perché era un gruppo che non aveva costruito lui: mi costringeva a giocare lontano da canestro, un incubo... Ma una persona deliziosa”. ”Era il suo modo di fare – riprende Ossola – quando tornò in panchina nel 1977 e anche nel periodo precedente con Aza Nikolic come allenatore e Nico come direttore tecnico. Con umiltà sapeva sempre tenere in mano la situazione. E aveva anche un bel fiuto. Scelse Rickie Jones che giocò con noi come americano di coppa nel 1969. Sembrava un disastro, poi tornò negli Stati Uniti e giocò anni come professionista. Oppure nel 1968, contro ogni parere, decise di svecchiare la squadra e di affidare la regia a me e di puntare su Meneghin al posto di Bovone come pivot, tutti e due scoperti proprio da lui”. ”Oltre ad essere lungimirante – conferma Flaborea – , era una persona di sensibilità straordinaria. E’ stato il primo allenatore, e credo sia rimasto l’unico, che al termine della stagione regalò a tutti una medaglia d’oro per la conquista dello scudetto. E negli anni era diventato sempre più preparato dal punto di vista tecnico aggiornandosi e viaggiando negli Stati Uniti. Un autentico uomo di sport, ma nato nella scuola, quindi con la capacità di insegnare e ascoltare. Anche se, devo dire, a noi di quella Varese non c’era molto da insegnare dal punto di vista tecnico”. Sicuramente dal punto di vista morale e umano ha insegnato molto. [...]» (Paolo Bartezzaghi, ”La Gazzetta dello Sport” 3/3/2005). Ha scritto Dino Meneghin: «[...] Mi hai inventato tu. E’ successo [...] in una palestra di Varese, dove il mio compagno di classe, Giancarlo Spissu, mi aveva invitato a vedere la prima partita di basket della mia vita. Tu, prof, allenavi una delle due squadre e mi avevi già adocchiato sui campi d’atletica, dove lanciavo peso e disco. Avevo 16 anni ed ero già grande e grosso. Ti sei avvicinato alla tribuna e m’hai detto a bruciapelo, ricordo come se fosse adesso: ”Vieni qui, fammi vedere come corri”. E fu così che feci un provino atletico all’istante, con il cappotto addosso. Alla fine mi ordinasti: ”Da domani sei con noi. Giocherai a pallacanestro”. Primo allenamento. Mi consegni il pallone e mi dici di palleggiare. Io comincio a dare colpi furiosi, come un martello pneumatico. Tu accorri e mi tranquillizzi: ”No, così, più morbido”. E poi, da allora, ancora centinaia di allenamenti. Mi hai insegnato tutto: invogliato, incoraggiato. Soprattutto entusiasmato e spinto a trarre piacere in quello che facevo. Mi caricavi, mi emozionavi, mi facevi lavorare sempre più forte. Così hai lanciato, oltre a me, gente come Bovone e Malagoli. Che occhio avevi. A 18 anni non ero ancora un buon giocatore, ma hai avuto il coraggio di buttarmi in campo, prof. Accanto c’era gente già esperta, come Ossola, Flaborea, Rusconi. Un mix da scudetto. Che hai vinto. Pensa come ci sono rimasti tutti quelli che ti snobbavano: ed erano tanti, erano le teste fine della pallacanestro di allora. Ma cosa vuole questo insegnante di ginnastica? Dicevano. E tu hai risposto lasciando un’impronta originale su Varese e sul basket italiano. Come quando tutti cercavano solo giganti americani e tu scegliesti, insieme al nostro manager Giancarlo Gualco, un messicano piccolo. Era Manuel Raga. Quanti scherzi ti facevamo, prof. Come quelle telefonate anonime alla vigilia delle sfide col Simmenthal: io, Rusconi e Ossola ti bombardavamo d’insulti fingendoci ultrà milanesi e poi ci sganasciavamo dal ridere quando, nelle riunioni tecniche prima della partita, ci ripetevi che dovevamo vincere anche per zittire i tifosi maleducati. E poi petardi, bombe puzzolenti, palline di pane: da vergognarsi. Ma tu sopportavi tutto di buon grado. Sei stato un precursore delle palestre private, della preparazione atletica. Ma io ti devo tutto, prof, e non solo per i miei muscoli e il mio cervello che hai allenato. Sei stato un mio secondo padre. Che mi faceva la saponata calda alle gambe, impiombate dai pesi. [...]» (’La Gazzetta dello Sport” 3/3/2005). Roberto Bettega l’ebbe com preparatore atletico a Varese, serie B 1969/1970: «In un anno solo stringemmo un legame fortissimo. Ero un ragazzino, avevo 18 anni, per la prima volta mi confrontavo con una realtà professionale: il professore mi adottò, si prese cura di me. Il lavoro che facemmo mi servì per tutta la carriera. Mi insegnò la dedizione al lavoro, l’importanza della mentalità. Mi studiava e mi diceva: ”Avresti bisogno di questo o di quello”. Io mi sarei buttato nel fuoco per lui. E’ venuto a trovarmi anche a Toronto, quando ho giocato in Canada. Poi ci siamo sempre tenuti in contatto. Era buono e premuroso» (’La Gazzetta dello Sport” 3/3/2005).