3 marzo 2005
Tags : Steve. Reich
Reich Steve
• Nato a New York (Stati Uniti) il 3 ottobre 1936. Compositore. «Il più grande compositore vivente, lo ha [...] definito il Village Voice. Eccessivo? Neanche tanto, se i più si limitano ad aggiungere l’aggettivo ”americano”, ma non a ridurne l’importanza e il prestigio. [...] la sua prima composizione è del 1965 [...] rappresenta una delle voci più riconoscibili e forti della storia musicale contemporanea. Una storia che lui stesso, mettendo a reagire idee e tecniche rivoluzionarie con un sapere eccentrico e bulimico, ha contribuito a scrivere, o meglio, a comporre attingendo alle fonti più disparate (e più dichiaratamente anti-accademiche) e disseminando la sua opera di concetti e prassi la cui portata è ancora oggi decisiva nell’incrocio delle poetiche contemporanee. Ma non chiamatelo minimalista: sebbene alcune sue opere lo accomunino alla produzione di La Monte Young e Philip Glass, la musica di Reich ha, da sempre, coniugato un linguaggio caratterizzato da un lento e progressivo sviluppo, sia nell’uso delle forme che nell’evoluzione del linguaggio. Da It’s Gonna Rain, del 1965, al più recente, e bartokiano, almeno nell’ispirazione, Triple Quartet, passando per le opere a forte connotazione visuale come The Cave o Three Tales, il compositore americano ha saputo raccontare e descrivere un mondo in costante cambiamento, cogliendone la debolezza e la bellezza, in un ossimorico, e vertiginoso, gioco di rispecchiamenti. Soprattutto negli anni `70, Reich ha tracciato una nuova mappa delle tecniche compositive, lavorando su modelli e soluzioni fascinose, come il phase shifting, l’aumentazione graduale di cellule motiviche, incrementando la discrezionalità dell’esecutore, allargando i confini della partitura. [...] Un’altra idea decisiva, e prodromica per molta musica a venire (compreso il rock: basti pensare a Brian Eno e alle sue produzioni di Talking Heads e Devo), su cui si basa il repertorio che eseguirà in Italia, è quella del ”phase shifting”, lo sfalsamento dei piani ritmici. [...] come ebbe quella geniale intuizione? ”Nessuna geniale intuizione, devo ammettere: fu un caso. Nel 1965, ero a San Francisco e stavo lavorando con due vecchi registratori a bobina per realizzare uno dei miei primi lavori. Avevo creato due loop identici con la voce del predicatore afroamericano che dice It’s gonna rain (diventerà il titolo del primo lavoro di Reich, ndr), e li avevo montati ciascuno su un registratore. Indossai le cuffie e quando feci partire le macchine mi accorsi, con grande stupore, che i due loop erano perfettamente allineati all’unisono. E, proprio mentre iniziavo a pensare a come sfruttare questa strana interrelazione, i due loop cominciarono a scorrere non perfettamente all’unisono; il risultato fu che percepii il suono viaggiare da un lato all’altro del mio corpo. Poi, percepii una sorta di riverbero, poi l’eco, e poi, infine, quella paradossale ripetizione della frase. Il viaggio che mi ha portato dall’unisono alla irrazionale relazione tra i loop, più dell’effetto ultimo ottenuto, è stata la molla che mi ha portato a studiare il phase shifting. Quindi, è vero che tutto è avvenuto per caso, ma mi sono accorto che avevo ottenuto, casualmente, un risultato assai interessante. Dapprima, dunque, tutto è nato manipolando nastri magnetici, ma siccome non volevo passare tutta la vita a lavorare con quei registratori, ho cercato di trasportare quella tecnica nella musica strumentale. Nel 1967, allora, mentre facevo correre il nastro di Piano Phase, mi sedetti al pianoforte e, suonando sul nastro, iniziai a scivolare, gradualmente, intorno alla musica. Funzionava, ed era interessante il fatto che non stessi improvvisando, né leggendo, ma ascoltando con grande attenzione una fonte sonora. Così, insieme a un mio amico pianista usammo lo stesso principio, ma usando due pianoforti, e senza nastro. Ce l’avevo fatta! [...] l’influenza di Coltrane - uno dei musicisti americani più importanti della storia - fu decisiva sia per me che per gli altri cosiddetti minimalisti, come Glass e Terry Riley. Quello che più impressionava era la sua capacità di suonare per lunghi periodi usando moltissime note su un materiale armonico ridottissimo (a volte anche uno o due accordi) senza mai perdere inventiva. Il meccanismo di suonare ritmi estremamente complessi su armonie semplici l’avevo già scoperto nei gruppi di tamburi africani o nel gamelan di Bali. E questi sono diventati gli ingredienti essenziali, almeno all’epoca, per lo sviluppo della nostra musica. [...] Il fatto è quando si scrive musica che contiene un certo quoziente di ripetizioni, come certa musica scritta negli anni `60 e `70 si diventa noiosi e ripetitivi; se suoni musica con un ritmo che fa um-pah-pah, um-pah-pah per mezzora, si è monotoni e ripetitivi. La mia idea è che quando scrivi materiale con un grande numero di ripetizioni allora devi costruire una certa indeterminatezza ritmica, che deve portarti a chiedere ’dov’è l’uno’. Non lo so dov’è l’uno! Per ottenere questo effetto uso i cosiddetti tempi ternari, che mi danno la possibilità di considerare la stessa scansione come generata da due gruppi diversi di note (ad esempio: tre gruppi da quattro, o quattro gruppi da tre); e questo consente lo spostamento degli accenti ritmici. Un ritmo così generato produce instabilità, ma soprattutto permette all’orecchio di ricostruire la musica percepita in modi diversi. [...] Penso che ciascun artista, qualunque sia il mezzo con cui si esprime, rifletta il proprio tempo. come avere un’antenna con cui captare tutti i segnali che ci circondano; e, ovviamente, attraverso un’antenna, come nel caso di una radio, si captano molte stazioni, e molto diverse tra loro. Io non credo di scrivere musica politica, con la p maiuscola, ma certamente mi interrogo sul mio tempo. L’11 settembre ha rappresentato un momento cruciale della nostra vita. Io abitavo vicino al World Trade Center e il crollo delle torri avrebbe potuto uccidere mio figlio. Quell’esperienza mi ha annullato, per molto tempo [...]”. [...]» (Vincenzo Martorella, ”il manifesto” 24/2/2005).