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 2005  marzo 02 Mercoledì calendario

BIOGRAFIA DI ALESSANDRO PIPERNO

PIPERNO Alessandro Roma 25 marzo 1972. Scrittore. «Philip Roth innanzitutto. Poi, in ordine sparso: Proust, Coetzee, Montaigne, Maradona, Mann, Woody Allen, Bellow, Capote, Tolstoj, Malamud, Gassman, Balzac, Gadda, Flaubert, Nabokov, Orson Welles, Grosz, Kafka, Moravia, Bruno Schulz, Scott Fitzgerald. C’è da restare a bocca aperta nel constatare quale illustre repertorio di Grandi sia stato scomodato per parlare del romanzo di Alessandro Piperno. Annunciato da Giuseppe Genna sul suo sito www. miserabili.com quando ancora il romanzo era in bozze con un titolo provvisorio ( Il paradiso finisce ): ”Un rifiuto delle stimmate del sapere”, ”Una sinfonia del tragico in epoca laica”, ”Una storia della contemplazione delle umane cose”. Il 9 febbraio 3005 il libro non è ancora distribuito e sul Giornale esce la recensione di Pier Mario Fasanotti. Che esordisce con un vistoso sospiro di sollievo: ”Forse ci siamo”, per dire che finalmente sembra apparire all’orizzonte un romanziere capace di oscurare ”quei soliti italiani|” minimalisti e piagnoni, con un romanzo ”stilisticamente molto elegante” . Il boom arriva il giorno dopo sul Magazine del Corriere, con Antonio D’Orrico, secondo il quale Con le peggiori intenzioni è senza dubbio ”il romanzo scandalo dell’anno 2005 e seguenti”, ”il romanzo che farà discutere e stregherà gli italiani nei prossimi mesi e probabilmente anche nei prossimi anni”. Otto e mezzo di Giuliano Ferrara, ospiti l’autore e lo stesso D’Orrico, farà il resto. Con aggiunta del Foglio che in un’intera pagina di Marina Valensise saluta il romanzo come una ”comédie humaine” del nostro tempo, il romanzo borghese che ci mancava. ”Un bell’apologo politicamente molto scorretto sui tempi che corrono e i nostri miti di latta”: nel solco, si direbbe, della Versione di Barney che fu acclamato dallo stesso Foglio come un capolavoro proprio in virtù del suo essere, appunto, ”politicamente scorretto”. Bene. Anzi benissimo. Anzi superbenissimo. Perché per il caso letterario più clamoroso del nuovo millennio, non c’è schieramento politico che tenga. Così, sull’altro fronte, quello di sinistra, arriva il peana del Diario. Con Pietro Cheli, che esorta subito il lettore: ”Marcatevi il nome, marcatevi il titolo. Un libro da non perdere”, con una prima parte ”strepitosa” . ”Strepitoso” e basta è l’aggettivo che utilizza Gad Lerner parlando del romanzo di Piperno nella sua rubrica su Vanity Fair. A un certo punto però fanno capolino anche i disfattisti. Sarà, come teme Luca Sofri nel suo blog (dove per altro segnala alcuni dei molti ”svarioni” dovuti a un editing poco accurato), che Piperno è ”malvisto da chi mal sopporta le cose di cui si parla troppo o di cui si parla troppo bene”? Forse. Fatto sta che Il Riformista arriva a contraddire se stesso. E dopo l’anticipazione di Luca Mastrantonio, che si inchina di fronte al ”giovane Roth italiano”, in un editoriale corregge il tiro [...] chiedendosi come mai il romanzo ”ci abbia poi procurato alla lettura tanta irritazione”. Un libro ”apotropaico”. ”Una storia di pipparoli pariolini (e olgiatari) senza particolari qualità, se non un egocentrismo che non muore, neanche una volta superata la fase masturbatoria”. E via sparando sulla ”plastica della scrittura fredda e ricercata » che « incarta con albagia il nulla di un gioco di specchi...”. Buttandola infine sul politico civile: ”Se questo è l’evento letterario dell’anno, però, vuol dire che il tratto apotropaico non è solo confinato alla letteratura, ma è un carattere nazionale”. E Giovanni Pacchiano sul Sole [...] si spinge oltre, chiedendosi: ”Perché questa sensazione di noia prolungata, di fatica a proseguire nella lettura, che proviamo leggendo la prima metà del romanzo?” (la stessa prima parte che Cheli trovava ”strepitosa”, rispetto alla seconda, ”meno potente”) . Pacchiano vede lungaggini insopportabili in un libro che gli appare come una serie di ”ritratti e caratteri allineati l’uno dopo l’altro; tanto descritti e poco narrati”, mentre si salvano solo ”singoli pezzi riusciti”. E tra i disfattisti, c’è anche chi, come Andrea Di Consoli sull’Unità, se la prende con i critici e con il ”gioco mediatico” a cui si prestano ciclicamente. E sulla stessa linea c’è chi, come Tiziano Scarpa su nazione indiana, conia, sul modello dei dj, un nuovo termine: i ”beejay”, ovvero i ”book jockey”» (Paolo Di Stefano, ”Corriere della Sera” 2/3/2005). «Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno è uno dei più brillanti esordi della nostra letteratura recente. Scrittori come Doninelli, Affinati, Mari, Trevi e Silvia Ballestra sono maturati con il tempo. Esordi clamorosi come quelli di Tondelli, De Carlo, Busi, Veronesi, Scarpa e Nove non erano altrettanto suggestivi.Al romanzo di Piperno, nella categoria dell’esordio, si può accostare L’ultimo capodanno dell’umanità di Niccolò Ammaniti, che non era un vero esordio e la cui asciuttezza somigliava a uno script per il cinema. La ricezione di questo libro non è sorprendente. [...] Con le peggiori intenzioni si segnala per due ragioni. Perché è cattivante, perché si fa leggere, perché non ci casca dalle mani, come accade alla maggior parte della narrativa contemporanea. Attraente, dunque, per un fatto stilistico. O due volte attraente se si pensa che questo stile appare mutuato con abilità o da postmoderno, o da falsario. I critici che hanno buttato lì i nomi di Proust o di Tolstoj, non so che cosa avessero in testa. In questo, Piperno è del tutto normale, come buoni e meno buoni scrittori italiani del passato, da Vittorini a Bassani a Camon, nei quali l’impronta di Gertrude Stein o di Henry James o di García Márquez è flagrante, in lui lo è quella di due scrittori che il pubblico ama in modo speciale: Philip Roth e Mordecai Richler. una delle virtù di un libro nel quale le virtù coincidono con i limiti: la nota alta, la voce tenorile. La seconda parte funziona come prova del fuoco. Reggerà? No, non regge. Fino in fondo non ce la fa, alla fine è in affanno, stecca, il talento appanna la lucidità critica. Ma occorre tener duro, per capire bisogna leggere tutto. Che cosa si deve capire? Qui passiamo al lato interessante, quello tematico. Più che sulla scia del sentimento tragico di Simone Weil ( il male genera male), Con le peggiori intenzioni oscilla sulla surfistica onda del sentimento angelico consolatorio che l’americano Michael Chabon aveva messo a fuoco qualche anno fa: la vergogna d’essere ebrei. ”Appartengo – diceva Chabon – alla generazione per la quale la cultura ebraica era quella di cui ci si serviva quando dovevamo lamentarci . E insomma: ecco uno che non si lamenta. Ecco uno scrittore italiano di origine ebraica che decide di farla finita con Carlo e Primo Levi. Egli, come tanti suoi coetanei, ci racconta la storia di una famiglia, nonno, padre e figlio: in ciò simile più a Melania Mazzucco che a Thomas Mann, che pure è stato tirato in ballo. Ma questo nonno, e questo padre, anziché essere ricordati da occhi elegiaci, sono visti da occhi disincantati, se non feroci. Il punto di vista del figlio, più comprensivo di quello di un cittadino che abbia in sé il germe della pietas, mentre dipinge e fustiga, sguazzando nella sua stessa ira comprende e assolve. a questa altezza che Con le peggiori intenzioni, sovrapponendo l’autore al personaggio diventa equivoco e non già ambiguo, per usare un termine letterariamente classico. I due vecchi Sonnino hanno deciso di chiudere con i due Levi? Benissimo. Cioè malissimo. Sono due sciagurati. L’accusa del figlio è che non abbiano dentro di sé alcuna interiorità. Ad altro non hanno pensato, nella loro vita, se non ad accumulare sostanze e vita. Erano e sono affamati di vita. In un’intervista, in nome di questa fame l’autore arriva ad assolverli. Nel libro accade un fenomeno più complicato. Li condanna a parole. Li assolve di fatto. I due vecchi Sonnino hanno insaziabilmente, irreligiosamente accumulato. Ma che cosa ha realizzato il narratore, il giovane Daniel Sonnino, con il suo j’accuse , in cui non c’è un minuto di silenzio? E che cosa ha fatto Piperno con la sua bulimica voracità verbale? Egli, dai padri, ebrei, o cattolici, non è lontano. Non è neppure, come Joyce, o come Dio, al di sopra delle parti. uguale a coloro che sta sputtanando. uno scrittore mimetico, al quale non è concessa alcuna intimità. Come si vede nella seconda parte, se il fallimento umano di Daniel deriva dalla timidezza sessuale, da cui i padri non erano afflitti, il successo letterario di Piperno deriva dalla strafottente rivendicazione d’un carattere. Strafottenza o fracasso, va da sé, maldicente e funzionale non meno della timidezza [...]» (Franco Cordelli, ”Corriere della Sera” 2/3/2005).