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 2005  marzo 02 Mercoledì calendario

MASELLI Titina Roma 11 aprile 1924, Roma 22 febbraio 2005. Pittrice. Scenografa • «[...] sorella del regista Citto e intellettuale antifascista (il suo impegno politico non si è mai interrotto, staffetta della resistenza romana da giovane, firmataria di una lettera contro la guerra di Bush all’indomani dell’11 settembre) [

MASELLI Titina Roma 11 aprile 1924, Roma 22 febbraio 2005. Pittrice. Scenografa • «[...] sorella del regista Citto e intellettuale antifascista (il suo impegno politico non si è mai interrotto, staffetta della resistenza romana da giovane, firmataria di una lettera contro la guerra di Bush all’indomani dell’11 settembre) [...] dopo gli studi classici, si indirizzò verso la pittura, incoraggiata anche da suo padre Ercole, critico d’arte. Giovanissima, poté contare su una prima personale alla galleria L’Obelisco. Si presentò subito nella sua radicalità: davanti ai visitatori c’erano un telefono, una macchina da scrivere e una cartaccia arrotolata sull’asfalto. Era quello il suo (iper)realismo, che più tardi descrisse così: ”Ci travolge la bufera dei frammenti del reale. Bisogna fermarli, chiarirli, entro strutture gelide, impassibili, rigide”. Nulla in comune con il tonalismo della Scuola romana né con l’Informale o con le poetiche della cerchia di artisti a lei famigliari (l’amicizia con Fausto Pirandello ma anche quella con Guttuso e Vespignani), piuttosto qualcosa che virava verso la modernità, spostandosi dalla parte del minimalismo delle icone, la segnaletica quotidiana e urbana ma non professando la spersonalizzazione della tecnica, che rimase sempre espressionistica. C’era solo una città che poteva accogliere quel suo ”guizzo” precoce: New York, dove infatti Titina Maselli si trasferì nel 1952 per respirare l’energia dei cortocircuiti. Lì, l’avventura della luce - quella elettrica, industriale - raccontava il mondo nuovo. E la Grande Mela diventò il pretesto per dipingere ”il vetro dei tubi di neon colorato, il paradiso artificiale della notte polverosa, i detriti, le scritte, il metallo”. E metallici saranno molti dei suoi quadri, con griglie di grattacieli, scure prospettive che s’inarcano dopo il tramonto, improvvisi bagliori dei fari che corrono lungo le strade. Il suo pennello percorreva somiglianze inedite. Piazza Fiume come Broadway: in entrambi i luoghi, piombavaun senso di spaesamento. Titina Maselli prediligeva i notturni perché azzeravano le forme e facevano tabula rasa dei clichés visivi, permettendo di ripartire dall’oggetto, fantasma senza più sovrapposizioni. L’altra sua ossessione era fissare l’effimero delle immagini dei giornali: calciatori e boxeurs hanno attraversato tutta la sua produzione. ”Volevo immortalare la scarica di adrenalina, l’urlo della folla”, diceva. Alla Biennale del ’50 - la prima, l’ultima è dell’84 - portò proprio un Calciatore ferito. Nel ’54 Titina Maselli era già di rientro da New York, di passaggio in Austria e infine a Roma trascorse tutti gli anni Sessanta e quando la Pop fece irruzione, se ne distanziò affermando che ”gli americani s’interessavano solo dipingere l’oggetto in sé, io invece intendevo dipingere i conflitti”. Nel successivo decennio scelse Parigi dove si fece intenso il suo amore per il teatro, l’altra sua ”casa” creativa. Sue le scenografie di molti spettacoli di Klaus Michael Grüber (celebre il Sei personaggi in cerca d’autore a Berlino, nel 1980) mentre con Carlo Cecchi s’instaurò una sintonia particolare: il suo Finale di partita si aggiudicò l’Ubu nel 1995 grazie anche all’invenzione di Maselli che cancellava l’ambientazione con una mano di carboncino. Così come geniale fu il cerchio di luce con cui ricreò il ring di Vienna nei Dramoletti di Thomas Bernhard (rivisitati da Cecchi). [...]» (Arianna Di genova, ”il manifesto” 23/2/2005). «’Ma tu sei artista indipendente, nel senso pieno della parola, e il tuo lavoro andrà soprattutto giudicato fuori dai ricordi e dalle simpatie personali: altri meglio di me potrà valutare la strada che hai percorsa in tutti questi anni”. Renzo Vespignani, un compagno di strada, scriveva così di Titina Maselli, presentandone una personale alla Tartaruga di Roma nel 1955. [...] il riconoscere alla pittura della Maselli quello stato suo, connaturato e fondante, d’indipendenza; quella condizione allora aurorale e quasi istintiva che poi, sempre più consapevolmente mantenuta negli anni a venire, significò duratura rinunzia a giovarsi delle solidarietà di questa e quella parte. La Maselli rinunziò così presto al rifugio che poteva offrirle il trepido espressionismo maturato nell’alveo dell’ultima scuola romana (subito dopo la sua prima Biennale veneziana, la XXV del 1950, ove fu presente accanto a Stradone, Scialoja, Sadun, ne prese le distanze). Poi a quello che le offriva il coeso schieramento del nuovo realismo. D’altra parte si tenne lontana da ogni complicità con il variegato fronte dell’astratto, di cui pure condivideva, e sempre condivise, alcuni passi di grammatica pittorica (e nella sala degli spazialisti e dei nucleari espose infatti alla Biennale del ’54). Infine non pose a frutto, come avrebbe potuto, certe sue anticipazioni - date già nel corso degli anni Cinquanta - del linguaggio pop, e del diffuso ritorno all’oggettualità degli anni Sessanta. Le tangenze con ognuno di questi indirizzi di ricerca - tangenze che spesso si configurarono come veri annunci, dati con netto anticipo, di quanto sarebbe venuto - sono certe; ma la Maselli non si accontentò mai di accasarvisi proficuamente; così che anche la critica - la più scelta, peraltro - che s’è occupata nel tempo del suo lavoro, ha faticato a tracciare per esso precisi confini. A Roma, dopo la guerra, Titina fa le prime prove in un espressionismo ostico e sgarbato, molto lontano da quel filante segno vangoghiano che occupava la pittura dei ”quattro fuori strada” (Scialoja, Stradone, Sadun e Ciarrocchi), come dai dominanti modi guttusiani; prossimo semmai a certe prove altrettanto giovanili di Angelo Savelli o di Salvatore Scarpitta; e sorretto da una scelta fondamentale, che le rimarrà, quella del nero come suo colore d’elezione. Un nero che sbarra, occlude, traversa impietoso gli spazi, già adesso striati d’ansia, della pagina pittorica. E una pittura in conflitto, come poi la nominerà, quella che prende adesso forma. Una pittura fatta di scontri e d’incastri, d’impennate e di crolli, di tragitti aperti e improvvisamente negati, di prospettive cieche, di brusca, inconciliante immanenza. Diceva, fin da allora, di voler andar oltre la ”bella pittura”. Pescava nella notte, nell’ombra: molto lontana dall’ottimismo e dal simultaneismo futurista, cui è stata pure, alle volte, avvicinata. A New York poi, dove andò prestissimo (ai primi del Cinquanta), e che fu la sua città insieme a Roma e prima di Parigi, dove più tardi prese casa e studio, guardò non, come ci si poteva attendere, l’espressionismo astratto della Decima Strada, ma certo annottato realismo d’inizio secolo (Joan Sloan, George Bellow) e certe aspre stesure, quasi neo-primitive, di Ben Shahn. Le sue tele raccontarono allora di cieli neri, di impalcature, di stati d’animo, di calciatori e boxeur, e di tutti i luoghi della città, negli incubi della notte. Le traversano lampi di luce, scheggiata; le assilla un umore malvagio; le governa il nero, ancora, spesso unito a un verde acido, ad un rosso senza speranza. Più rilassati i suoi spazi, e più aderenti alla bidimensionalità di tele cresciute spesso a dismisura nelle loro dimensioni, gli anni Ottanta (Partita di calcio, Lo stadio): quando il colore si fa più araldico, e talora gioiosamente matissiano, nel dialogo fra il rosso e l´azzurro. E questo il tempo, anche, dell’intenso, felicissimo impegno che stringe la Maselli al teatro, per il quale ha immaginato importanti scenografie, lavorando a fianco dei maggiori registi europei - fra questi Carlo Cecchi [...]» (Fabrizio D’Amico, ”la Repubblica” 23/2/2005).«una delle più importanti pittrici del secondo Novecento [...] Nel 1945 sposò Toti Scialoja [...] anche scenografa e illustratrice, ha ricoperto un ruolo importante in quella che è chiamata la ”Scuola romana di Piazza del Popolo”, con Tano Festa, Mario Schifano e Mimmo Rotella. Nata a Roma nel 1924, dopo aver compiuto studi classici, Titina s’incammina ragazza sulla strada della pittura, incoraggiata anche dal padre, il critico d’arte Ercole Maselli. All’età di 20 anni vende il suo primo quadro fuori dalla cerchia familiare. La prima mostra personale è del 1948. Un esordio legato alla sua vicinanza al movimento di Corrente, con Guttuso. Nel 1950 partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia. Nel 1952 va a New York, dove rimarrà tre anni, per poi trasferirsi nella provincia austriaca dove, in una condizione di isolamento, si concentrerà in una ricerca accanita sul colore. Tornata a Roma, Titina Maselli vi trascorre tutti gli anni 60. Negli anni 70 si trasferisce a Parigi, dove nasce la collaborazione con registi come Gilles Aillaud e Bernard Sobel. Rientrata in Italia, collabora con il regista Carlo Cecchi» (’Il Messaggero” 23/2/2005). «[...] la sua fragile, eppur ferrea risata sospettosa, da felliniana lupa romana, alla Anna Magnani. Scrutante, ma con qualcosa appunto di frangibile, di aggressivamente indifesa, da chansonnière parigina, alla Edith Piaf. Se n’era accorto Moravia, ovviamente, perché sono sempre gli scrittori i più sensibili. ”Strano a dirsi, perché vedendoti così fragile e magra non lo si penserebbe per quanto riguarda lo spazio che tu sei in rivalità con la realtà”. il punto nodale, della sua pittura, molto più importante di quanto una critica distratta oggi le riconosca: sorella del regista Citto, ma meno ingabbiata di lui ideologicamente, ”cinematografica”, come aveva intuito anche Francesco Arcangeli (nei suoi camion notturni, ”intestini di bulloni e tubi”, ritrovava il Salario della paura di Clouzot) la Maselli non aveva un rapporto apocalittico, moralistico con le cose mostruose eppure golose del mondo industriale: era troppo ammalata di energicità, per non adorare le periferie desolate dell’America, le palestre turpi, stillanti sudori alla Saroyan di boxeur e calciatori in tiro, la ”complicità urbana” di New York. Ove si era ritirata nei primi anni Cinquanta, sposata con Toti Scialoja, prima di scegliere l’Austria e poi Parigi, ed infine tornare nella Roma dei gasometri e degli scali merce del Portonaccio (insieme a Vespignani). Non era nemmeno una fenomenologica pura, che voleva tornare alle cose stesse, come negli anni del Gruppo ’63 e dell’Ecole du Regard, si poteva illudere Renato Barilli, parlando della sua ”bella caparbietà” di una caratterizzante ”chiave cosale”. Era troppo viscerale, indipendente, ribelle, per poter fare la compagna di strada: nella strada lei scendeva, con le sue Subway (certo, come il primo Rothko figurativo: ma non è detto che potesse conoscerlo) i suoi Ponti sulla Ferrovia (molto Arthur Miller), i suoi Taxi e Bar di Notte (lontani parenti di Hopper e di Bellow). A razzolare tra i ”detriti buttati con disamore negli sterri” pasoliniani, (sapeva anche scrivere), ad inseguire i giornali svolazzanti, nelle strade deserte, ”supporti vermicolanti di vita”, ad accecarsi di grattacieli: ”transatlantici arenati, con le finestre che sono i pori che espellono le nevrastenie”. La dicevano seguace dei futuristi, ma lei preferiva ribattere (siciliana nel sangue) d’aver guardato ad un quasi parente, Fausto Pirandello. ”Sì, voglio dipingere l’energia, questa sospensione in campo magnetico, della vita: questa specie di febbre”. E l’occhio tagliato di Buñuel diventa così uno sguardo sezionato dalle veneziane high tech. L’inizio fu folgorante: Biennali, Jeune Peinture a Parigi, recensioni sul New Yorker, la prima presentazione addirittura di Corrado Alvaro, che intuisce il suo ”disprezzo del buon quadro” e lo sforzo di ”usare la pittura”, il colore non-pulito (addirittura quello dei carrozzieri e del lucido da scarpe, dice lei, provocatoria) per ”comunicarci il nostro profondo disagio”. Ma lei non si dice espressionista: ”il mio segno è ginnastico”. Negli ultimi anni, oscurata da tante sgallettanti alla moda, la Maselli ha preferito espandere la sua rabbia nella scenografia, nella tela come teatro, tra Beckett, Heiner Mueller, ma anche Stravinsky e Milhaud. E a scorno d’una critica ingenerosa, può vantare moltissimi ”nipotini”: che vanno da Bernardo Siciliano a Giovanni Frangi, a Luca Pacrazzi» (’La Stampa” 23/2/2005). «[...] come Anna Magnani, era il volto d’una Roma durata troppo poco. Queste due donne corvine, irregolarmente bellissime, si somigliavano. La loro femminilità, il loro fascino, la loro drammaticità si intonava perfettamente a una Roma di grandi protagonisti della cultura, dello spettacolo e della politica. Una Roma che, troppo presto, si sarebbe dissolta nell’aria, lasciando di se solo una difficile memoria. Se della Magnani s’è detto tutto, della Maselli tutto o quasi rimane da dire. Era una pittrice importante, dotata di un estremo rigore professionale. Sapeva alla perfezione il suo mestiere.Parlava di libri con la competenza esperta e disinvolta d’un critico d’altri tempi. Era laica, severa e insieme aperta a tutte le provocazioni della vera intelligenza. Aveva l’impegno politico, la gauche nelle viscere e nel cervello come le grandi pasionarie della prima metà del ventesimo secolo. Non concedeva nulla nelle discussioni ai propri oppositori, razionalizzando però le proprie reazioni. Mai l’ira, sempre e solo la dialettica. Quando non era a Parigi, la città dei suoi anni vecchi, la Maselli viveva in un piccolo, povero e fascinoso appartamentino con vista (incantata) su Santa Maria in Trastevere. [...]» (Antonio Debenedetti, ”Corriere della Sera” 23/2/2005).