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 2005  marzo 02 Mercoledì calendario

CabreraInfante Guillermo

• Nato a Gibara (Cuba) il 22 aprile 1929, morto a Londra (Gran Bretagna) il 21 febbraio 2005. Scrittore. «[...] scrittore geniale e dissidente cubano con la più copiosa bibliografia e con il più ricco palmares di riconoscimenti letterari [...] uno dei più grandi scrittori cubani di tutti i tempi [...] La grandezza di questo uomo di lettere è racchiusa soprattutto in due libri: L’Avana per un infante defunto (Garzanti, 1979) e Tre tristi tigri (il Saggiatore, 1964). Si tratta di due capolavori dove Cabrera Infante usa un linguaggio del tutto proprio. Nel primo descrive cos’era L’Avana tra gli anni Quaranta e Cinquanta, dove svolgeva il suo apprendistato sentimentale: pomeriggi passati in grandi sale cinematografiche in stile americano, vita di quartiere all’insegna del caos dei sentimenti, inseguimento di amori possibili e impossibili all’insegna di una sensualità a cui abbeverarsi come si fa con l’aria per respirare. Nel secondo si esercita a prendere in giro i grandi classici della letteratura cubana usando le loro perifrasi e il loro stile: da Nicolas Guillen a José Lezama Lima fino ad Alejo Carpentier. Cabrera Infante scrive con ineguagliabile maestria delle notti dell’Avana accompagnate dalla musica utilizzando tutto il bagaglio dei letterati cubani del XX secolo. Alla fine della lettura di Tre tristi tigri, si ha la sensazione che l’autore abbia inventato una nuova estetica che ha proprio nella parola lo spazio temporale dell’azione narrativa. Per questi due libri, a tanti anni dalla loro prima uscita, Cabrera Infante ha ricevuto nel 1997 il Premio Cervantes della Letteratura, il massimo riconoscimento internazionale per un autore di lingua spagnola. Ma il più inflessibile critico di Fidel Castro ha legato la propria storia letteraria anche alle sue critiche cinematografiche che aveva iniziato a scrivere da giovanissimo in alcuni giornali cubani (Carteles, tra gli altri), dopo aver fondato nel 1951 la prima Cineteca di Cuba. Poi, dopo la rivoluzione del 1959, era stato tra i redattori più brillanti di Lunes, l’inserto culturale di Revolución, il quotidiano del Movimento 26 luglio di Castro, che acquisì rapidamente un grande prestigio nel modernizzare il dibattito culturale cubano. Proprio Cabrera Infante era maestro nelle recensioni e nelle polemiche, oltre che nell’uso di correnti eretiche del marxismo: dalla rivisitazione del trotzkismo al pensiero originale di Jean-Paul Sartre, fino all’influenza del surrealismo di André Breton. Sulla redazione di Lunes si scatenò la prima bagarre repressiva post-rivoluzionaria. L’inserto fu chiuso nel 1961 e poco dopo anche Revolución venne sostituito dal quotidiano Granma, organo ufficiale del Partito comunista cubano. Il colpo per Cabrera Infante fu durissimo. Lui era nato il 22 aprile 1929 a Gibara, un paesino della provincia orientale di Cuba, quella dove la canna da zucchero cresce spontanea come i fiori di campo. Nel 1941 si era trasferito con tutta la famiglia a L’Avana. I genitori erano oppositori del dittatore Fulgencio Batista e lo stesso Cabrera Infante verrà arrestato nel 1952, dopo aver pubblicato sulla rivista Bohemia un articolo antiregime intitolato English profanities. Dopo i primi anni utopici, l’istituzionalizzazione della rivoluzione castrista era diventata intollerabile per un intellettuale ribelle e all’avanguardia come l’autore di Tre tristi tigri. Cabrera Infante ha sempre rifiutato il dialogo con gli intellettuali dell’Avana, anche quando questi ultimi - all’inizio degli anni Novanta - con alcuni convegni in territorio neutro (Stoccolma e Madrid) cercarono di superare le antiche contrapposizioni politiche in nome di una ”cubanità” artistica che deve appartenere a chi vive dentro o fuori l’isola. Anzi, Cabrera Infante pubblicò in quello stesso periodo una raccolta di feroci saggi anticastristri dal titolo Mea Cuba (il Saggiatore, 1992) dove si demolivano con un odio spesso fuori le righe anche autori cubani dall’indiscutibile valore come Alejo Carpentier per il solo fatto di aver deciso di non separarsi da Cuba. Le posizioni politiche di Cabrera Infante erano ancora più velenose nei confronti dell’intera storia della rivoluzione cubana. Nel 1997, nel trentesimo anniversario dell’assassinio di Ernesto Guevara in Bolivia, non ebbe freni inibitori nel definire il Che ”un Goebbels dedito alla propaganda di un regime nazista”. Quando tornava alla letteratura, continuava però a dare il meglio di sé: come nel caso di Holy Smoke (1986), un trattato sull’arte di fumare i sigari. Ovviamente i sigari avana che per storia, stagionatura, lavorazione, clima in cui sono essiccati non hanno eguali al mondo e si producono nella patria perduta di Cabrera Infante, scrittore dell’esilio durato quasi una vita intera» (Aldo Garzi, ”il manifesto” 23/2/2005). «[...] Se si dovesse mettere in risalto un solo valore permanente - cosa impossibile - nell’opera dell’autore di Tre tristi tigri e di L’Avana per un infante defunto, il primo sarebbe senza dubbio la creazione di quella lingua letteraria che da allora è una delle grandi scoperte della letteratura cubana del secolo XX. L’opera di Cabrera Infante, comunque, va molto oltre: fin dalle sue vecchie cronache cinematografiche, scritte negli anni Cinquanta, e dai racconti, poi raccolti in Così in pace come in guerra, Cabrera Infante diventò una delle voci più irriverenti e innovatrici della cultura cubana, non solo per l’uso di un linguaggio nuovo, ma anche per la sua profonda visione di ciò che è cubano e, ancor più, avanero. Si sa che una città non è fatta solo di persone, strade, edifici, cimiteri. Una città è, soprattutto, uno spirito, e lo spirito de l’Avana è anche una creazione in cui la voce di Guillermo Cabrera Infante - come le voci di Alejo Carpentier, di Lino Novas Calvo, di Lezama Lima o, andando più lontano, nel sempre più lontano secolo XIX, la voce fondatrice di Cirilo Villaverde - si rivela imprescindibile. [...] L’appartenenza di Guillermo Cabrera Infante a Cuba è un fatto indiscutibile. Nemmeno i lunghissimi anni da lui trascorsi in esilio, vissuti con rancore e nostalgia, sono riusciti a separarlo dalla città, dalla sua città. Tra i vapori e le nebbie di Londra, Guillermo Cabrera Infante ha continuato ad essere visceralmente cubano, tra l’aroma dei sigari cubani che era solito fumare e le parole cubane che ha continuato a scrivere [...]» (Leonardo Padura Fuentes, ”la Repubblica” 23/2/2005). «Lo chiamavano il mago della parola e più che un complimento era una constatazione. Dicevano fosse un uomo complesso e ostinato, pieno di silenzi e di rancore. E questo era vero solo in parte. Guillermo Cabrera Infante era uno scrittore facile da ammirare ma non altrettanto facile da amare. [...] Era un anticastrista furioso, giornalista, sceneggiatore, grande appassionato di cinema. Ma era soprattutto il cantore dell’Avana. Quella senza tempo degli anni ’50 che non è poi tanto lontana da quella dei nostri giorni. Una città che si era impresso negli occhi e nel cuore, elevandola a territorio ideale, a sogno, a tormento. Come molti di coloro che hanno narrato la città delle colonne, da Severo Sarduy a Reinaldo Arenas, anche lui arrivava dalla provincia. Era nato a Gibara dove i suoi genitori, tra i fondatori del partito Comunista Cubano, volevano farne un medico. Sbarcò nella capitale nel 1941 e la città, con il suo ritmo vertiginoso e la sua vita sempre esagerata lo catturarono per sempre divenendo una presenza costante, quasi ossessiva nella sua letteratura. Una città, un mondo, un linguaggio. C’è tutto nelle sue pagine: la gente habanera, le sue notti, la sua musica, la carnalità, gli odori, l’indissolubile miscuglio di grandezze passate e miserie presenti. L’Avana per un infante defunto, il suo libro più famoso (insieme a Tre tristi tigri ) era proprio questo. Un inno all’oralità della letteratura, un modo di costruire romanzi colti con un linguaggio alto ma allo stesso tempo popolare. ”I miei libri non sono scritti in spagnolo - soleva dire - . Sono in cubano”. Anche questo era la sua letteratura: il tentativo di afferrare le voci umane al volo e fonderle in un solo linguaggio letterario. Cabrera Infante era popolo ed élite. Era la ricerca di nuovi linguaggi, la voglia di costruire e scomporre con le parole, era l’architettura di una città che si materializzava sulla carta con ogni suo dettaglio. Ma era anche musicalità, anzi musica. Quella musica spesso protagonista nei suoi libri. I suoi romanzi erano concerti nei quali le parole avevano il ruolo dello strumento solista. Libri da leggere, ma non solo. Libri da ascoltare, da recitare ad alta voce, immergendosi nel suono delle parole: ”La letteratura va letta con le orecchie prima che con gli occhi. Io cerco di scrivere seguendo questo concetto” amava ripetere quando gli chiedevano del suo rapporto con la musica. E lui la musica, oltre ad ascoltarla la creava, con verbi e aggettivi al posto delle note. La scriveva da virtuoso della lingua, forse immaginando un ipotetico lettore intento a declamare le sue pagine, a lasciarle evaporare sotto il sole calcinante del pomeriggio cubano o ascoltarne il rimbombo sotto l’ombra salvatrice di un porticato coloniale. O magari usarle per farsi compagnia sopra il muretto del malecòn . Le parole come un lungo assolo. Lente e malinconiche come un bolero, cadenzate come un son, divertenti come una guaracha. Solo quando si parlava di politica quelle sue parole diventavano pietra. Allora ogni forma di musicalità spariva per lasciar spazio all’anima radicale, quella che non perdonava gli europei accusati di flirtare con Fidel, ma che teneva anche a distanza gli scrittori rimasti a vivere nell’Isola. Quando gli chiedevano se gli sarebbe piaciuto ritornare in una Cuba senza Castro, rispondeva che sì, sarebbe tornato, ma non con il primo aereo. [...]» (Pierpaolo Marchetti, ”Il Messaggero” 23/2/2005). «[...] entrato presto nel mondo del cinema e del giornalismo, dopo la rivoluzione di Fidel Castro contro il dittatore Batista, aveva poi seguito tutta la trafila del partito, nei giornali e anche in missioni diplomatiche. E proprio durante i soggiorni europei, aveva cominciato a prendere le distanze dal castrismo, rompendo poi definitivamente nel 1965. Stabilitosi brevemente in Spagna, prese poi, in quegli anni, la decisione di rimanere definitivamente a Londra. Tre tristi tigri (tradotto in italiano nel 1977) in modo ossessivo, giovanile, affascinante rappresenta però proprio il mondo che l’autore aveva appena lasciato: è infatti l’Avana prerivoluzionaria, vista attraverso le esperienze di un gruppo di giovani, tutti amici tra loro, tra i quali ce n’è uno che comincia a narrare. Tutto è giocato così sul parlare, sul ricordare, sui giochi di parole, sulle associazioni di idee da suscitare, però, e questa è la sua vera cifra, più che godimento, un sentimento struggente di nostalgia. La nostalgia non ha mai abbandonato Cabrera Infante, rivelandosi sempre in forme varie. L’Avana per un infante defunto, uscito in Italia nel 1979, e considerato forse il suo capolavoro ci offre di nuovo la Cuba degli anni Quaranta e Cinquanta, addirittura come sfondo di iniziazione, guardata però come ironia, quasi come beffa, come suprema avventura e disavventura vitale, sempre in bilico tra passato e presente, tra una storia fissa nel tempo e mutamenti che minacciano di travolgerla: tale, però, da non poter essere dimenticata. [...]» (’La Stampa” 23/2/2005). «All’inizio degli anni Novanta, il nome di Guillermo Cabrera Infante veniva volentieri associato a quello di un altro notevole scrittore cubano, Reinaldo Arenas. Che cosa li accomunava? Arenas era uno scrittore autobiografico, un memorialista, un romanziere di tipo tradizionale. Ed era un omosessuale. Cabrera Infante fu altrettanto autobiografico; ma in modo bislacco, obliquo, frammentario. S’era sposato una prima volta nel 1953, a ventiquattro anni; nel 1955 scoprì che ”l’adulterio è molto più facile che il sesso pre matrimoniale”; a ventinove anni conobbe l’attrice Miriam Gomez, che divenne la sua seconda e definitiva moglie. Ad Arenas lo accomunava un sentimento, l’odio, che da bambino i genitori comunisti gli avevano insegnato a odiare. Gli dicevano: l’odio si può combattere in un solo modo, odiandolo. Cabrera Infante non dimenticò mai quella lezione. Per tutta la vita, al pari di Arenas, odiò Fidel Castro, a causa del quale visse in esilio, prima a Madrid, poi a Londra, in Gloucester Road. Ma, a differenza di Arenas, per tutta la vita si divertì, con quel suo detestabile sentimento, lo amplificò, lo ridusse, come un indio la testa del nemico, lo smussò, lo limò, lo infiocchettò con i suoi strabilianti, innumerevoli, esilaranti giochi di parole. Disse una volta il suo vicino di casa Mario Vargas Llosa: ”Per uno scherzo, per una parodia, un gioco di parole, un’acrobazia dell’ingegno, una carambola verbale, Cabrera Infante è sempre stato disposto a rendere tutti suoi nemici, a perdere i suoi amici, e forse anche la vita, poiché, per lui, l’umorismo non è, come per i comuni mortali un divertimento che rilassa l’anima, ma un modo compulsivo di sgridare il mondo per com’è e di mandare in aria le sue certezze”. Sgridare il mondo così dice Vargas Llosa. Ma cosa fu il mondo per Cabrera Infante? Fu [...] un luogo di nostalgia. Mai s’è visto, nella letteratura del secondo Novecento, uno scrittore più nostalgico di Cabrera Infante. Questo suo sentimento, come accade alle persone bene educate, fu accuratamente travestito. Più s’infittiva, più innumerevoli si facevano le maschere. Ma le sue maschere non furono di personaggi e di storie. Furono, secondo il ricordo di Vargas Llosa, di giochi di parole, di calembours , di scherzi, di motti di spirito ai quali lo scrittore cubano toglieva anche la sedia di sotto il sedere: motti di spirito senza più oggetto, senza più corpo tanto straziante era la sua nostalgia. Viene dunque da chiedersi: nostalgia di che cosa? la domanda cruciale. Lo scrittore cubano, che visse non a caso a Londra, ebbe due numi tutelari. Erano due scrittori inglesi: Laurence Sterne e Lewis Carroll. Dal primo trasse la più severa lezione: l’esperienza umana non è determinata, come crediamo, dal tempo, bensì dallo spazio, dalla geografia. Il tempo non esiste; o è simultaneo. Dall’altro trasse la seconda, meno severa e più giocosa lezione, che se si è in uno spazio, vale a dire in una prigione, l’unico per intrattenerci quaggiù è combinare gli elementi, cioè le parole. E se tra questi elementi si nasconde un sentimento, e se questo sentimento è riprovevole, è una cosa brutta come l’odio, allora non c’è scampo che nella beffa, nella derisione. La nostalgia di Cabrera Infante aveva un nome solo, la sua infanzia (infante infanzia), cioè Cuba. E un nome solo aveva il suo odio, Castro, che gli impedì di viverci. Castro impedì di vivere a Cuba a un mucchio di persone. Tra gli altri ad Arenas e a Cabrera Infante, per lo stesso motivo: perché Castro, dice il liberale Cabrera Infante, è ”tutto tranne che un essere sessuato, come ogni tiranno”. [...] Come sopportare due tipi come Arenas e Cabrera Infante? Il primo, un omosessuale; e il secondo lo scrittore più antipuritano che si conosca: e non già per la sua cripto apologia dell’adulterio, bensì per la sua aperta, incondizionata, inesauribile apologia della lussuria verbale, spinta spesso e volentieri alle soglie dell’ecolalia, vale dire della perversione polimorfa. Basterà ascoltare alcuni dei suoi titoli: Tre tristi tigri del 1965, Orbis oscillantis del 1975, L’Avana per un infante defunto del 1979, Mea Cuba del 1992. Nessuno di questi libri è un romanzo, come siamo soliti pensare al romanzo. Sono libri di indefinibile natura, veri e propri mostri, deformi, oscillanti, metamorfici. Sono enciclopedie del XX secolo, imbuti che tutto ingoiano senza mai nulla risputare: le notti cubane di prima della rivoluzione castrista, le strade della swinging London, i cinema di Parigi, i musicisti di New York (gli furono amici Miles Davis e John Coltrane), le ragazze dell’Avana e di Madrid (ah quella ragazza che voleva fare l’amore ascoltando e riascoltando, fino alla nausea, La mer di Debussy!) e, naturalmente, i libri di tutto il mondo [...]» (Franco Cordelli, ”Corriere della Sera” 23/2/2005).