varie, 1 marzo 2005
SEGRE
SEGRE Cesare Verzuolo (Cuneo) 4 aprile 1928. Critico letterario. Docente di filologia romanza all’Università di Pavia, è socio dell’Accademia dei Lincei dal 1993. Inizialmente ha dedicato i suoi studi alla critica stilistica, pubblicando importanti saggi raccolti in Lingua, stile e società (1963) e in Esperienze ariostesche (1966); poi si è affermato come uno dei più autorevoli esponenti italiani del metodo strutturalistico e semiologico, con opere come I segni e la critica (1969), Teatro e romanzo (1984), Avviamento all’analisi del testo letterario (1985) e Fuori del mondo (1990) (’Corriere dellaSera” 1/3/2005) • «[...] Per lui vale la definizione di philologus in aeternum, cercatore di ”verità” nei testi ma anche nella storia, in letteratura e nella vita civile, troppo curioso per rimanere prigioniero di una torre d’avorio, tra schede e varianti, autografi e apografi, copie manoscritte e a stampa (Per curiosità è anche il titolo di una testimonianza autobiografica scritta per Einaudi una decina d’anni fa). [...] ”Nato sotto il fascismo, speravo di vedere un’Italia libera e più giusta. Un paese disinfestato dalle mafie e sullo stesso piano delle democrazie europee. Non potevo certo prevedere un tale declino degli ideali illuministi e laici”. un maestro riconosciuto dalla scena accademica internazionale, artefice di importanti edizioni critiche di Ariosto e della Chanson de Roland, conoscitore di lingue antiche, alfiere dello strutturalismo in Italia, critico letterario di vasti interessi, allievo prediletto di Benvenuto Terracini e Gianfranco Contini, ”figlio adottivo" di personaggi eterogenei come Raffaele Mattioli e Roman Jakobson, dominus per quattro decenni all’Università di Pavia, ma è come se in fondo agisse un’inquietudine mai placata, un dolore antico che non passa. [...] famiglia piemontese di Saluzzo spezzata in due dalle leggi del 1938 [...] ragazzo ebreo che nei giorni più bui della guerra, incalzato dalle leggi razziali della Rsi, trova rifugio in un convento salesiano ad Avigliana, all’inizio della Val di Susa, dove traduce avidamente dall’Edipo Re alla Vida es sueño, dalle poesie di Heine al Faust e all’Amleto, ma scopre anche cos’è la paura. ”A quindici anni ho provato cosa significhi vivere con l’orecchio teso a cogliere il passo degli stivaloni tedeschi. Ho vissuto come qualunque animale, la fuga davanti al cacciatore”. Poi il viaggio di ritorno a Saluzzo, e la scoperta d’aver perso molti famigliari ad Auschwitz. ”Ripenso ancora alle infinite volte in cui ho rischiato di finire in un campo di concentramento. Mi è rimasta addosso l’impressione di essere stato anch’io rinchiuso in un vagone piombato, di essere sceso nel lager tra urla e spintoni, di aver attraversato il fatidico cancello”. In quei luoghi nel dopoguerra non è mai voluto andare, per timore d’una ricostruzione finta e teatralizzata. Ma se gli si domanda cosa sogni oggi, risponde d’impeto: ”Io sogno Auschwitz”. Ancora viva è la traccia di quel suo vissuto, ”sono sempre diffidente, mi apro all’amicizia con le persone solo dopo averne considerato il merito”. Anche nella carriera accademica, pur molto brillante - in cattedra poco più che trentenne - non ha mai smesso di chiedersi se difficoltà e ostacoli fossero dovuti a motivi personali o a ragioni politiche-religiose. ”Sono persuaso che l’antisemitismo abbia pesato, anche se in molti sono pronti a negarlo”. Studioso ”anarchico” per colpa degli eventi, lettore e traduttore onnivoro, dell’autodidatta dice di conservare qualità e difetti. ”Dai maestri ho poi imparato il metodo, ma da quella mia prima formazione disordinata ho attinto il piacere della ricerca, il seguire percorsi non prestabiliti, nemico della specializzazione eppure sempre più specialista”. Nel suo lavoro ha sempre cercato il plaisir du texte, ed è la chiave che ne spiega la ”bigamia” tra la disciplina filologica e la semiotica, la critica letteraria esercitata secondo passione e curiosità. Bigamo, ma senza incroci sconvenienti. ”Ho sempre mantenuto l’insegnamento entro confini tradizionali, pochissime le tesi affidate a temi semiologici”. Nel sottotetto del collegio salesiano scoprì per caso gli illuministi, ricavandone grande stimolo d’intelligenza e ironia. Una stagione di letture intense, non solo Montesquieu e Voltaire, ma anche capolavori di altri secoli e altre geografie, e la messa a punto di un primo originale metodo che poco più che adolescente lo induce a confrontare i Vangeli con le profezie veterotestamentarie. ”La mia filologia in fondo è nata lì, tra quelle mura”. Il destino era già segnato, ma fu lo zio Santorre Debenedetti, fratello della nonna paterna e grande figura della filologia, a scegliere per lui. ”Se non l’avessi incontrato, forse avrei fatto lo storico delle religioni”. Alto e sottile, circondato da un’aura di sapienza, lo zio Santorre gli dava molta soggezione: ”Mi divertiva il suo modo di porre fine alle visite. Diceva all’ospite: ”Grazie di esserti disturbato a venirmi a trovare’”. Il primo incarico - Cesare diciassettenne - fu annotare tutti gli accusativi alla greca dell’Eneide, ne seguirono molti altri in biblioteca sulle poesie dei Memoriali bolognesi o sulle Satire dell’Ariosto, ”ma non mi disse mai bravo, tanto meno grazie. Probabilmente aveva già in mente che fossi il suo erede, e non ha ritenuto necessario dirmelo”. Una luce divertita negli occhi. ”Almeno Gesù Cristo disse a uno dei suoi apostoli ”tu sei Pietro...’. Lui, lo zio Santorre, niente”. A ottant’anni è naturale avere dei rimpianti, libri non scritti, lavori progettati e mai compiuti, ma Segre tende a glissare, ”non credo che il mondo sia in attesa delle mie opere: a che servono, poi, in un panorama così deprimente?”. Preferisce confessare qualche rimorso, ”espressioni d’affetto che avrei potuto pronunciare, ma non l’ho fatto». In realtà un rifiuto ancora gli pesa, quel ”no’ opposto nel 1960 a Giacomo Debenedetti che gli proponeva la traduzione del Corso di linguistica generale di Fernand de Saussure. ”Un errore madornale! Io sapevo che di quel testo fondamentale dello strutturalismo stava preparando un’edizione critica Rudolf Engler. Proposi di cercare altro e suggerii lo studio di Charles Bally, comunque allievo di Saussure. Quando poi uscì il lavoro di Engler, era tutta un’altra cosa... Del resto Tullio De Mauro ha fatto un lavoro eccellente: la cultura italiana non ha perso niente, io semmai ho perso qualcosa”. Fu sempre Debenedetti, con la sua voce controllata e armoniosa, a suggerirgli la celebre inchiesta sullo strutturalismo che nel 1965 segnò la fortuna del nuovo metodo critico in Italia. ”Tutto partì da due intuizioni di Giacomino: la centralità della linguistica e la fondamentale novità introdotta in letteratura dallo strutturalismo. Da lui mi venne l’idea di usarlo in modo coerente. Per me fu anche l’ingresso nel campo della critica militante”. Quattro anni più tardi esce I segni e la critica, che pone le basi del rinnovamento metodologico, una lunga stagione da cui lo studioso parve accomiatarsi con Notizie dalla crisi al principio degli anni Novanta. ”Molti hanno avuto l’impressione che dicessi addio alla semiotica, ma non era così. Sono tuttora convinto della validità del suo pensiero. un dato di fatto che una ricerca schiettamente semiologica non è possibile, però le metodologie finora elaborate restano lì, pronte a essere riprese magari in una prospettiva diversa”. Ciò che davvero importa, non smette di ricordarlo, è la realtà che sta dietro semiologie e semiotiche. Cercatore di verità, nella vita e nei testi. Nel 1968 era già a Pavia, uno dei santuari della contestazione. ”All’inizio stavo dalla parte degli studenti. Subii anche un processo, ma i ragazzi si adoperarono per un’assoluzione pubblica. Fu un pomeriggio nell’aula magna, mi fecero sedere di fianco alla cattedra dalla quale dottoreggiavano gli accusatori, io replicavo calcando gli accenti demagogici. In realtà fu una bella discussione. Volavano le critiche contro i fondatori della filologia come Gaston Paris e Pio Rajna, oggi gli studenti mi chiederebbero: ma chi sono?”. Si definisce un ”impolitico con gran passione per la politica”. Nell’estate del 1994, dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, si fece promotore di un manifesto d’allarme democratico. Uscì su Belfagor con le firme illustri della cultura e del pensiero costituzionalista, denunciava le nuove forme illiberali e la manipolazione del consenso. ”Fu la mia prima uscita politica, e anche l’ultima”, aggiunge quasi rassegnato. ”Non perché l’allarme sia venuto meno, semmai i problemi mi sembrano ancora più gravi”. S’illumina solo quando ritorna al suo Orlando furioso, ne dirige tuttora la ”concordanza diacronica”. riuscito a svelare il mistero delle notti di Bradamante e si diverte a fare un po’ di gossip intorno ad Angelica. Là ritrova quella felicità che solo i filologi possono capire, il resto no, la realtà italiana lo intristisce. ”Sono davvero poche le illusioni della mia giovinezza soddisfatte in questi ottant’anni”. Philologus in aeternum, con qualche malinconia» (Simonetta Fiori, ”la Repubblica” 3/4/2008).