Jared Diamond, ཿArmi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi Tascabili 1998 pp. 86-99, 17 febbraio 2005
Per quali motivi alcune piante si lasciano domesticare con facilità e altre no? Perché alcune hanno ceduto già in epoca preistorica, altre nel Medioevo e altre ancora si sono rivelate inattaccabili? Possiamo trovare molte risposte esaminando in dettaglio ciò che sappiamo essere avvenuto nella Mezzaluna Fertile
Per quali motivi alcune piante si lasciano domesticare con facilità e altre no? Perché alcune hanno ceduto già in epoca preistorica, altre nel Medioevo e altre ancora si sono rivelate inattaccabili? Possiamo trovare molte risposte esaminando in dettaglio ciò che sappiamo essere avvenuto nella Mezzaluna Fertile. Le prime specie coltivate nel Vicino Oriente circa 10000 anni fa furono il grano, l’orzo e i piselli; tutti derivano da varietà selvatiche molto buone, perché abbondanti, commestibili e di rapida e facile crescita. Bastava seminarle e raccoglierle dopo pochi mesi: una bella comodità per i primi pionieri, sempre in bilico tra la vita nomade del cacciatore e quella sedentaria dell’agricoltore. E non è finita qui: si potevano immagazzinare senza problemi (al contrario, ad esempio, delle fragole e della lattuga); erano perlopiù ermafroditi sufficienti che si autoimpollinavano e trasmettevano ai discendenti tutti i geni utili; e bastavano poche mutazioni genetiche per renderli domestici (due sole nel grano, ad esempio: la mancata dispersione dei semi e la germinazione uniforme). Nello stadio successivo, attorno al 4000 a. C., si domesticarono le prime varietà di frutto, tra cui le olive, i fichi, i datteri, i melograni e l’uva. Rispetto ai cereali a ai legumi, avevano lo svantaggio di maturare lentamente, visto che no fruttificavano per tre anni dopo la semina, e raggiungevano un regime soddisfacente di produzione solo dopo un decennio. chiaro che coltivare questi alberi era un compito possibile solo per popoli che conducevano già una vita sedentaria. Si trattava comunque di colture facili perché, al contrario di molte specie arboree, crescevano direttamente a partire dai semi o dai germogli della pianta madre, il che dava la certezza che tutte le piante figlie avrebbero avuto le stesse caratteristiche desiderabili. Nel terzo stadio fecero la loro comparsa specie più difficili da coltivare, come le mele, le pere, le prugne e le ciliegie. Sono alberi che non si propagano con i pollini, e che non ha senso far crescere a partire da un seme, perché il risultato può essere radicalmente diverso rispetto alla pianta madre. Per farli riprodurre bisogna utilizzare la difficile tecnica dell’innesto, messa a punto in Cina molto tempo dopo la nascita dell’agricoltura. L’innesto richiede un sacco di lavoro, e il principio su cui si basa è così complesso che non può essere stato scoperto per caso: non è stato merito di un nomade che ha visto qualche bell’albero da frutto crescere come per miracolo nella sua latrina. Gli antenati di queste piante ultime arrivate avevano un altro problema: dovevano essere impollinati da un altro individuo della stessa specie ma geneticamente diverso. I primi frutticoltori dovettero utilizzare individui mutanti, o piantare intenzionalmente a breve distanza esemplari maschili e femminili o di linee genetiche diverse. Tutte queste difficoltà fecero sì che mele, pere, prugne e ciliegie fossero domesticate solo in epoca classica. Negli stessi secoli, però, si iniziò a coltivare un gruppo di piante molto meno problematiche i cui antenati selvatici erano considerati erbacee che infestavano i campi: la segale, l’avena, i ravanelli, le rape, le bietole, i porri e la lattuga.