17 febbraio 2005
Non solo tra gli escrementi l’uomo semina involontariamente le piante di cui si nutre. I frutti raccolti, ad esempio, devono essere portati a casa, e nel tragitto possono lasciar cadere qualche seme; alcuni marciscono pur contenendo semi perfettamente vitali, e sono quindi buttati tra i rifiuti
Non solo tra gli escrementi l’uomo semina involontariamente le piante di cui si nutre. I frutti raccolti, ad esempio, devono essere portati a casa, e nel tragitto possono lasciar cadere qualche seme; alcuni marciscono pur contenendo semi perfettamente vitali, e sono quindi buttati tra i rifiuti. Alcuni semi piccoli, come quelli delle fragole, sono inevitabilmente ingeriti e poi eliminati con le feci mentre quelli più grossi vengono di solito sputati. Per farla breve, i primi laboratori di agronomia devono essere stati i cumuli di rifiuti e le latrine. I semi che finivano in uno di questi luoghi appartenevano comunque a quelle piante commestibili che l’uomo, per un motivo o per l’altro, gradiva particolarmente. Quando i primi contadini iniziarono a seminare, si rivolsero inevitabilmente alle piante che avevano scelto deliberatamente di raccogliere, anche se non conoscevano la legge genetica secondo cui piantare i semi dei frutti più grossi dà come risultato, con grande probabilità, altre piante dai frutti grossi. Quando vi inoltrate nei rovi, circondati da nugoli di zanzare in un’afosa giornata estiva, non lo fate in modo casuale: più o meno consciamente, scegliete il punto che vi sembra migliore. Ma con quali criteri? Innanzitutto, come è ovvio, in base alle dimensioni dei frutti: il gioco non vale la candela quando si rischiano insolazioni e punture per una manciata di bacche striminzite. Ecco uno dei motivi per cui le specie coltivate hanno frutti più grossi di quelle selvatiche; le fragole e i lamponi giganti che troviamo nei supermercati sono dovuti agli ultimi secoli di colture. Con i piselli accade qualcosa di ancora più evidente: attraverso la selezione dei primi agricoltori preistorici, questi legumi divennero dieci volte più grossi dei loro antenati selvatici. Per millenni l’uomo ha raccolto questi piccoli piselli spontanei, proprio come oggi noi raccogliamo le fragoline di bosco, prima che la selezione degli esemplari più grossi e più allettanti – cioè quello che noi oggi chiamiamo agricoltura – facesse sì che le dimensioni medie aumentassero di generazione in generazione. Analoghi discorsi si possono fare per le mele, che nella versione domestica si sono triplicate di diametro, e per il mais: mentre le pannocchie del mais selvatico sono lunghe poco più di un centimetro, in Messico si era arrivati già nel 1500 a pannocchie di 15 centimetri, e alcune varietà moderne raggiungono i 40-45 centimetri. Un’altra differenza evidente tra i semi delle piante spontanee e di quelle coltivate è il fatto che i primi sono assai amari. un prodotto dell’evoluzione: molte piante hanno sviluppato semi dal sapore disgustoso o addirittura velenosi, per scoraggiare gli animali dal mangiarli; la selezione naturale ha dunque operato su frutti e semi in modo opposto: i primi devono essere dolci e attirare l’attenzione, i secondi devono essere cattivi in modo tale da essere sputati, altrimenti verrebbero masticati e resi incapaci di germinare. Le mandorle sono un esempio lampante. Quasi tutte le mandorle selvatiche contengono un composto chimico assai amaro chiamato amigdalina, che a sua volta si scinde e dà luogo al velenosissimo cianuro: uno spuntino di questi semi basta a uccidere qualche pazzoide che non si faccia scoraggiare dal loro sapore amaro. Ma il primo passo verso la domesticazione è sempre dato dalla raccolta di frutti selvatici: chi può avere mai pensato di portarsi a casa una bella manciata di mandorle velenose? La risposta sta nella presenza di una mutazione occasionale in un gene che impedisce al mandorlo di sintetizzare l’amigdalina. Nei boschi, questi alberi sfortunati muoiono senza progenie, perché gli uccelli di solito si mangiano tutti i semi. Ma il figlio curioso (o affamato) di uno dei primi contadini può essersi accorto della piacevole novità, così come al giorno d’oggi capita con alcune querce le cui ghiande sono dolci e non amare come al solito. Quindi, quelli dolci furono gli unici semi che i primitivi si portarono a casa e piantarono prima inconsciamente tra i loro rifiuti, e poi intenzionalmente nei giardini. Le mandorle selvatiche si sono trovate in siti della Grecia risalenti all’8000 a. C., e attorno al 3000 a. C. erano domestiche sulle coste orientali del Mediterraneo. Nella famosa tomba del faraone Tutankhamen, morto nel 1325 a. C., furono lasciate alcune mandorle che dovevano servire a sfamarlo nell’oltretomba. Tra le piante coltivate i cui progenitori sono immangiabili o velenosi troviamo i fagioli di Lima, i cocomeri, le patate, le melanzane e i cavoli; in tutti questi casi una qualche mutazione deve aver dato origine a qualche esemplare commestibile, che i primi agricoltori si portarono a casa e fecero germogliare. I criteri con cui l’uomo seleziona le piante da raccogliere, oltre alla dimensione e al sapore, sono vari: la presenza di frutti più carnosi o senza semi, di fibre e di semi oleosi, e così via. Meloni e zucche selvatiche hanno pochissima polpa attorno ai semi, ma le preferenze alimentari dei primi contadini fecero sì che si arrivasse a poponi carnosi e con pochi semi. Lo stesso accadde per le banane, che nel passaggio da selvatiche a coltivate persero i semi; il che in tempi recenti ha spinto gli agronomi a produrre arance, uva e cocomeri senza semi. Quello dell’assenza di semi è un criterio che dimostra come l’uomo possa rovesciare il cammino dell’evoluzione naturale: un frutto che in origine ha la sola funzione di contenere e far disperdere i semi ne diventa, grazie all’uomo, del tutto privo. Frutti e semi oleosi furono anche selezionati in tempi preistorici: l’olivo, ad esempio, fu tra le prime piante da frutto ad essere addomesticate nel Mediterraneo, attorno al 4000 a. C. Le olive coltivate sono non solo più grosse ma anche molto più oleose delle loro sorelle selvatiche. Altre piante che subirono lo stesso destino sono il sesamo, la senape, i papaveri e il lino, a cui si sono aggiunte in tempi moderni il girasole, il cotone e la colza. Il cotone, naturalmente, è anche una fonte di fibre tessili. Si utilizzano allo scopo i peli che rivestono i semi, e i primi agricoltori sia europei che americani si diedero da fare per selezionare in modo indipendente due varietà di cotone dai peli più lunghi. Nel lino e nella canapa, invece, le fibre si ricavano dagli steli, e quindi la pressione selettiva fu in favore di gambi sempre più lunghi. Anche se spesso pensiamo alle piante coltivate solo in termini alimentari, non dobbiamo dimenticare che il lino fu una delle prime specie domesticate (attorno al 7000 a. C.) e che esso rappresentò la principale fibra tessile in Europa fino alla rivoluzione industriale, quando fu soppiantato dal cotone.