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 2005  febbraio 12 Sabato calendario

GIOLITTI

GIOLITTI Antonio Roma 12 febbraio 1915, Roma 8 febbraio 2010. Politico • «’Quanti cari nomi sento risuonare tra i giovani comunisti!”, esclamava Arturo Carlo Jemolo in un articolo sulla rivista ”Il Ponte”. Ed elencando gli eredi di queste dinastie famose - Giolitti, Amendola, Calamandrei, Lombardo Radice - confessava: è anche per la loro presenza che, nei riguardi del comunismo, ”io non riesco a sentire quell’avversione profonda” che ”avvertivo di fronte al nazismo”. Era il novembre del 1945. [...] All’epoca in cui Jemolo scriveva, Giolitti, trentenne, faceva parte di quell’ambiente culturale giovanile che Palmiro Togliatti considerava una sorta di lievito del Pci uscito dalla clandestinità. E nei decenni successivi [...] - prima che l’età gli consigliasse di estraniarsi dalla politica attiva - ha rappresentato una voce viva della sinistra italiana. Percorrendone l’impervio tracciato. Esprimendo i suoi consensi e dissensi con un quieto coraggio tipicamente piemontese. Assumendo incarichi di governo e funzioni internazionali. Assurgendo, insomma, a modello di una ”gentilhommerie” che è banale attribuire all’altro secolo. Aveva partecipato, Giolitti, alla guerra partigiana, prima sul monte Bracco, in Piemonte, poi nelle valli di Lanzo. Tornando a Roma dopo la Liberazione aveva ripreso, accanto all’attività di partito, il suo lavoro presso la casa editrice Einaudi. Cominciavano così gli anni più impegnativi per questo intellettuale che ”si è trovato suo malgrado a fare politica per colpa della Resistenza”. Sui ricordi dei suoi anni verdi, seguìti da quelli che egli desume da sessant’anni di vita italiana, si profila l’ombra del ”grande nonno”. Con qualche nota ammonitrice o profetica. In una lettera che Giovanni Giolitti inviò a suo figlio Giuseppe, padre di Antonio, il 10 maggio del 1915, si leggeva fra l’altro: ”L’affrontare l’impopolarità è in alcuni casi il più assoluto dovere”. Queste righe, [...] le ha riprodotte, quasi come un’epigrafe, ad apertura di un proprio libro, Lettere a Marta (Il Mulino, 1992). In realtà, il dovere dell’impopolarità Giolitti junior lo condividerà fino a farsene un abito esistenziale. Roma, gli studi, un breve soggiorno in carcere per antifascismo, e poi la politica. Il Piemonte, teatro delle campagne elettorali e luogo di villeggiatura. Sono questi i luoghi di Antonio Giolitti. Gli amici di Roma e Torino popolano la sua vita. Fra i primi, quel gruppo di giovani che alla vigilia della guerra comincia a formare un’ossatura di ”intellettuali organici” per il futuro ”partito nuovo”: da Bufalini a Trombadori, da Alicata a Ingrao. Accanto a loro, i compagni di lavoro della Einaudi: Pavese, Balbo, Muscetta, Pintor, Bobbio, Venturi, Calvino, Mila. E infine, intermezzo affettivo, la villeggiatura al mare di Castiglioncello, dove il giovane Antonio entra in contatto con il clan D’Amico: una ragazza di questo cognome, Elena, diventerà nel 1939 sua moglie. Ma quella di Giolitti è soltanto per piccola parte una biografia sentimentale. soprattutto, a sentirla rievocare dalle sue labbra [...] il racconto di un trauma: quello che deve affrontare, in politica, un uomo di sinistra dotato di un’onestà intellettuale che rasenta l’intransigenza. Il vero battesimo pubblico di Giolitti come polemista si ha alla fine del ”56, all’VIII congesso del Pci, quando nonostante goda della predilezione di Togliatti - così si dice - , osserva che per il Pci, ”si tratta di cambiare e di correggere”, e di ”cambiare anche gli uomini che non si possono correggere”. l’allusione più esplicita che sia risuonata nel palazzo dei congressi dell’Eur, benché pronunziata senza enfasi. ”Nell’atteggiamento dell’oratore non c’era nulla di provocatorio”, ricorderà uno dei presenti, Gianni Rocca. E anche in seguito, le polemiche e i dissidi che l’abiura di Giolitti alimenterà non raggiungeranno mai l’apice dell’animosità. Quando nel 1957 esce dal Pci, dai vertici comunisti non partono contro di lui quelle bordate ”definitive” che hanno colpito altri dissidenti, come Fabrizio Onofri o Eugenio Reale. In una lettera mai recapitata per un disguido postale, Togliatti gli chiede anzi un favore: quello di avere con lui ”un incontro o una conversazione” che preludano ”a un contatto migliore” e ”a una migliore comprensione”. Ricucire con Togliatti e il suo partito? Nell’animo di Giolitti non c’è posto per soverchi rancori ereticali. Ma egli si incammina ormai sulla ”via del riformismo”. Ne intravedeva da tempo il tracciato, man mano che la fede marxista lasciava spazio, in lui, alla scoperta del New Deal rooseveltiano, delle idee di Keynes e della pratica di governo in uso nelle socialdemocrazie d’Europa. Nel partito di Nenni, cui Giolitti aderisce, si parla, soprattutto ad opera di Riccardo Lombardi, di ”riforme di struttura”. Albeggia il centro-sinistra. Giolitti e Lombardi vi formeranno un tandem operativo. Programmazione: una prassi di cui Giolitti (sostenuto per lunghi tratti da Ugo La Malfa) si sforza di dimostrare l’indispensabilità. E lo fa tra molti ostacoli. L’allarme suscitato nel mondo degli affari e l’insofferenza, da parte della Dc dorotea, decretano alla fine il fallimento dell’esperienza. Dopo l’insuccesso socialista alle elezioni del 1976, si entra nell’era craxiana. Abbandonati gli incarichi di governo, ”l’uomo della programmazione” vive relativamente appartato, si sente parte di quell’ambiente che egli stesso definisce dei ”senzatetto di sinistra”. Il suo staff, capeggiato da Giorgio Ruffolo, viene allontanato dall’area ministeriale. Dal 1977 al 1985 Giolitti è a Bruxelles, membro della Commissione delle Comunità europee. Il Psi lo ha deluso. Nella nuova gestione di Craxi scorge un’intolleranza non meno grave di quella sperimentata a suo tempo nel partito di Togliatti. Vede consolidarsi ”una consensuale e sistematica prevaricazione dei partiti di governo sulle istituzioni”. Craxi? ”Ho smesso d’incontrarlo quando è andato a palazzo Chigi”, dichiara Giolitti nel maggio 1987. Nel giugno successivo, viene eletto senatore nel collegio di Pavia come indipendente nelle liste del Pci. la sua ultima campagna elettorale. Da allora in poi apparterrà a una sinistra - sono ancora una volta sue parole - ”impaziente e insoddisfatta”. [...] Per lungo periodo ha ”cercato di mettere bene i piedi, con qualche sdrucciolone, sulle vie della politica”. La sua vita è stata, in fondo, un tentativo di passare ”dall’illusione dell’utopia alle speranze del riformismo”, senza smarrire il ”rapporto sempre problematico tra efficacia della passione politica e coerenza con i valori etici”. Nel 1991, in occasione della guerra del Golfo, ha ricordato le difficoltà dei comunisti che - in ogni occasione in cui si ricorre alle armi - si vedono ”messi con le spalle al muro come partito d’opposizione che vuol diventare governo” [...]» (Nello Ajello, ”la Repubblica” 12/2/2005).