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 2005  gennaio 27 Giovedì calendario

Tabori George

• Budapest (Ungheria) 24 maggio 1914, Berlino (Germania) 23 luglio 2007. Scrittore • «La memoria, il lutto, il riso. Tutta l’opera di George Tabori - i romanzi, i lavori teatrali, uno straordinario libretto autobiografico e le regie memorabili, da Finale di partita di Beckett al Ratto del Serraglio - ruota intorno a questa triade, passa di continuo dalla catastrofe alla farsa, dal tragico all’umore nero. C’è sempre della gente perbene, normale, ragionevole, che finisce in situazioni folli, tremende, e che nella sofferenza e nello spavento diventa comica. ”Per me il riso è una cosa molto seria” dice Tabori. ”Appartiene alla mia cultura, quella ebraica e quella inglese. Io vedo lo scheletro che ride come nei dipinti di Ensor. La comicità nasce sempre da qualcosa di tragico. To laugh your head off, dicono gli inglesi; in tutte le lingue c’è l’espressione morire dal ridere”. [...] Provocò uno choc alla fine degli anni 60 il primo lavoro teatrale che portò a Berlino, I cannibali, ispirato alla morte del padre a Auschwitz. Tutta la sua famiglia, salvo la madre e il fratello, è stata sterminata dai nazisti. Lo Schiller Theater fu esaurito per mesi e piovvero da tutte le parti lettere di protesta, perfino dal presidente della comunità ebraica Galitsky, preoccupato che venissero mostrati degli ebrei che cuociono in un calderone un altro ebreo. Gli spettatori non sapevano se piangere o ridere. Si può ridere sull’Olocausto? Poco prima della deportazione del padre a Auschwitz, nel ”42, George gli aveva telefonato da Istanbul, dove lavorava per lo spionaggio britannico. Sapeva che le cose stavano precipitando e voleva spingere i genitori a lasciare l’Ungheria. ”Sapevo che il telefono era sotto controllo, riuscii solo a dire vieni, venite presto a trovarmi in Turchia, venite per Natale. Pensavo che il mio invito chiarisse da solo la gravità della situazione, parlavo forte, ma non dissi per carità venite da me subito a mettervi in salvo, e non me lo sono mai perdonato [...] Sono stato nel padiglione dove avevano portato gli ebrei ungheresi, nelle fotografie alla parete i prigionieri sembravano tutti uguali, migliaia, con la testa rasata, fotografati mentre rispondevano all’appello o spingevano una carretta, irriconoscibili, mio padre avrebbe potuto essere chiunque di loro; sono stato lì diverse ore, non l’ho trovato, poi sono andato nel luogo delle esecuzioni, c’era una scala, chissà se lui ce l’aveva fatta a salirla con la sua gamba rotta pensavo, sono andato in una camera a gas, che gli alleati avevano fatto saltare, era rimasta una rovina, ho preso in mano un sasso, ho cercato di immaginarmi la sua vita lì, inutilmente, mi sono messo il sasso in tasca, come un souvenir, tutto il luogo era un souvenir, famoso quanto la Tour Eiffel, un gioiello di questo secolo, la cosa più orrenda di cento anni, soprattutto per i fortunati sopravvissuti come me”. In Autodafé, l’autobiografia, Tabori racconta di aver avuto quella notte un incubo. La madre si era salvata quando era già sul treno piombato. Aveva avuto la temerarietà di rivolgersi a un ufficiale delle SS e convincerlo a lasciarla scendere. Tornò a Budapest e rimase nascosta insieme alla sorella e al cognato. Verso la fine della guerra il figlio della sorella, che lavorava per la missione svedese che aiutava gli ebrei, venne a prendere i suoi genitori per portarli in un posto più sicuro. Per la madre non poteva far nulla, disse. Non aveva fatto nulla nemmeno per impedire che il padre di Tabori da un campo in Ungheria fosse portato a Auschwitz. Per vecchi rancori di famiglia. Rimasta sola, la madre all’alba cercò scampo nella casa di un giovane ungherese, ariano, che si era offerto in passato di aiutare la famiglia. Nel sottoscala ci sono una trentina persone scappate all’avanzata dei russi, sono tutti antisemiti, le disse il giovane, dirò che lei è mia madre in modo che non s’insospettiscano, e le fece togliere dal petto la stella gialla. L’accolsero, le offrirono una tazza di tè. Poco dopo arrivarono i primi soldati russi arrivarono nel centro di Budapest, uno di loro buttò giù la porta del sottoscala col calcio del fucile e ai trenta rifugiati, bianchi come la cera, gridò: nazisti eh, tutti nazisti! La madre gli andò incontro, tirò fuori di tasca la stella gialla: non ci sono nazisti qui, disse. Il soldato arrossì e abbassò il fucile. Incontro Tabori nella sua casa a due passi dal Berliner Ensemble, che fu il teatro di Brecht. Quando conobbe Brecht, nel ”47, negli Stati Uniti, Tabori scriveva romanzi. ”Una volta a New York andai alle prove del Galileo, mancavano tre giorni alla prima e l’ultimo monologo non funzionava: Brecht non voleva una autoaccusa ma una cosa che facesse sembrare Galileo un povero diavolo. ”Laughton continuava invece ad essere eroico. Mi chiese aiuto: forse bisogna cambiare la traduzione. Andai a casa, feci tre piccoli cambiamenti che funzionarono, e da quel giorno ho avuto voglia di scrivere solo per il teatro”. [...] ”A Berlino mi mandò per la prima volta mio padre che avevo diciott’anni, nel ”32. Le cose si mettono male per noi, mi disse, meglio se impari un mestiere con cui puoi campare dappertutto. Fai l’albergatore, alberghi ce sono in tutto il mondo. E magari trovi lavoro in Svizzera. Feci un praticantato all’hotel Hessler, dove al quinto piano c’erano le stanze per il personale. Uno dei miei compagni di camera, un ragazzo della mia età, era un nazista sfegatato, discutevamo ogni sera per ore. Nemmeno allora però facevo l’equazione tedesco uguale nazista, come non l’ho mai fatta dopo. Altrimenti non sarei tornato in Germania alla fine degli anni 60. Ho sempre odiato le generalizzazioni. Non riesco a dire ”i tedeschi’, ”gli inglesi’, ”gli americani’. Mio padre, una sera, aveva appena finito di leggere un racconto di Cechov, disse: una cosa come ”i russi’ non esiste: ognuno è diverso: uno è buono, un altro è cattivo, non te lo dimenticare mai”. [...]» (Vanna Vannuccini, ”la Repubblica” 27/1/2005).