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 2005  gennaio 27 Giovedì calendario

Johnson Philip

• Cleveland (Stati Uniti) 8 luglio 1906, New Canaan (Stati Uniti) 26 gennaio 2005. Architetto. Ha reinventato lo skyline di New York e dell’America, ha disegnato giganti di cristallo destinati a influenzare generazioni di creativi e ha lasciato l’impronta in decenni di studi sull’architettura. Tra i lavori più noti di Johnson, figurano i grattacieli Seagram (realizzato negli anni ’50 insieme a Mies van der Rohe) e AT&T a New York, ora di proprietà della Sony; la Crystal Cathedral di Garden Grove, in California; la torre di 56 piani di granito rosa della Republic Bank di Houston, in Texas; e la Cleveland Playhouse, un complesso che richiama alla mente un villaggio dell’XI secolo. «Negli ultimi anni i critici ed i colleghi che non avevano mai amato le sue infinite contraddizioni, il carattere sfrontato e la piena consapevolezza della propria grandezza, avevano cominciato a prendere le distanze anche dai suoi capolavori indiscussi, e di fronte alle sue ultime opere architettoniche si divertivano a dire che Philip Johnson [...] costruiva ormai soltanto delle gigantesche tombe autocelebratorie. Sono stati in pochi ad aver apprezzato l’opera di ristrutturazione del grattacielo che sovrasta Columbus Circle su commissione di Donald Trump, e c’è chi colse l’occasione per riproporre la critica che ha perseguitato Johnson per quasi tutta la sua carriera: non ha uno stile proprio, ma si limita a rielaborare quello altrui. Ma basta ricostruire oggi lo straordinario percorso architettonico che è iniziato all’inizio del secolo scorso per comprendere come l’osservazione malevola non colga in realtà il segno caratteristico di una ricerca continua, che ha visto Johnson assorbire e rielaborare gli stimoli più significativi delle correnti artistiche del Novecento alla luce di una cultura eclettica e mai provinciale. Era nato a Cleveland [...] da un avvocato benestante che dopo il liceo riuscì a farlo ammettere a Harvard, dove approfondì lo studio dei classici. Il suo notevole talento teorico fu evidente sin da quel periodo, e a soli ventisei anni divenne il direttore del dipartimento di architettura del MoMA. L’intensa curiosità intellettuale e la naturale propensione alla comunicazione lo spinsero a fondare la rivista “The international Style” grazie alla quale vennero diffuse in America le tecniche del Bauhaus. Si deve principalmente al lavoro che svolse negli anni Trenta l’apprezzamento americano (ma anche internazionale) del minimalismo architettonico, ed in particolare il lavoro di Le Corbusier, Walter Gropius e Mies van der Rohe, sui quali scrisse saggi appassionanti e curò le prime esibizioni. Con van der Rohe, iniziò un sodalizio tra i più appassionanti della storia dell’architettura, che ebbe il momento di massima visibilità e compiutezza artistica nella costruzione ,da parte di van der Rohe, del Seagram Building di New York, all’interno del quale Johnson disegnò i locali del Four Seasons. Quanto al lavoro dei grandissimi architetti che fece conoscere in America, era interessato particolarmente al modo in cui operavano sugli elementi strutturali, e a come li trasformavano in elementi fondanti di una ricerca estetica. La fine degli anni Trenta segnano un duplice momento di crisi: nello stesso periodo in cui decise di abbandonare il lavoro da teorico e di curatore per conto del MoMA, tornando a frequentare dei corsi di approfondimento ad Harvard, Johnson rimase prondamente colpito dai progressi economici della Germania post-Weimar, al punto da tentare di fondare un partito politico dalle evidenti simpatie filo-naziste. La suggestione nei confronti della Germania di Hitler, riguardo alla quale non fu certamente estraneo l’indubbio talento architettonico di Albert Speer, svanì nel giro di poco tempo, e, a detta del biografo Franz Schulze, che lo definì “da un punto di vista politico un modello di futilità”, non risulta tuttora chiaro se l’improvviso cambio di rotta sia dovuto alla scoperta della realtà nazista, o al fatto che le sue idee politiche non ebbero alcun riscontro. Quel momento di grave inebriamento rimase uno dei passaggi più controversi della sua intera esistenza, che gli è stato rinfacciato [...] nonostante Johnson avesse fatto attenzione a pubblicizzare la costruzione di una sinagoga edificata come atto di sincera espiazione pochi anni dopo la fine della guerra. È il periodo di lunghi viaggi, che lo portarono ripetutamente in Europa ed in Asia e dell’affermazione pubblica della propria omosessualità. Ma è anche il periodo della “Glass House” il suo primo capolavoro architettonico (una struttura in vetro senza muri interni con al centro un grande camino in mattoni) costruito nella sua tenuta di New Caanan, che lui stesso definì “un incoraggiamento ai nuovi architetti”. L’impatto della Glass House sul mondo dell’architettura fu immediato, e Johnson cominciò ad ottenere una serie di commesse di grandissimo prestigio, che lo portarono alle grandi opere moderniste degli anni Cinquanta e Sessanta che ridisegnarono lo skyline di New York: il giardino interno del MoMA, la fontana centrale del Lincoln Plaza, il New York State Theater, e a Forth Worth, nel Texas, l’Amon Carter Museum. È il momento in cui approfondisce maggiormente la studio della storia, e a differenza di altri grandi architetti americani ne fa un riferimento costante ed evidente dei suoi lavori più visibili, come la Dumbarton Oaks’Art Gallery di Washington. L’amore per un passato da reinventare , ed il crescente distacco dal mondo accademico lo portano a dichiarare “preferirei dormire nella cattedrale di Chartres, con un bagno a due isolati di distanza, che a Harvard, dove ho il bagno attaccato alla mia camera da letto”. Cominciò ad essere considerato il decano dell’architettura americana sin dagli anni Settanta, grazie anche al suo continuo, instancabile e a volte narcisistico lavoro di comunicazione culturale. Delle grandi opere costruite insieme a John Burgee, molti considerano il suo capolavoro la Avery Fisher Hall (sede attuale della New York Philarmonic) e, soprattutto la Cattedrale di Cristallo di Los Angeles, realizzata con oltre diecimila pannelli di vetro su una intelaiatura di cemento, terminata la quale dichiarò con la solita volontà di spiazzare che “aveva cominciato a provare odio e noia nei confronti del vetro”. È il periodo in cui cominciò a promuovere appassionatamente il decostruttivismo, e riuscì a spiazzare nuovamente il mondo architettonico con il palazzo della At & T, sul tetto del quale disegnò una forma ondulata che suggerisce in egual misura la solidità classica di un tempio greco e la sinuosità del Chippendale. Ebbe minore successo con il grattacielo oblungo costruito sulla Terza avenue, che venne chiamato sin dalla inaugurazione con il nomignolo “lipstick”, rossetto. Paul Goldenberger scrisse in quella occasione sul “New York Times” che Johnson dimostrava di essere “la presenza più significativa del mondo dell’architettura senza essere il più grande architetto del mondo”» (Antonio Monda, “la Repubblica” 27/1/2005). «[...] uno degli ultimi maestri dell’architettura moderna. [...] aveva attraversato indenne, pur influenzandoli, tanti movimenti che hanno contrassegnato l’architettura dello scorso secolo: dall’international style al postmodern al decostruttivismo. O forse per quella sua celebre arroganza che, assieme a quei suoi occhiali tondi con la stessa montatura di Le Corbusier (“ma le mie stanghette sono diverse”), aveva contribuito a trasformarlo più in un personaggio da copertina che non in un modello per addetti ai lavori. Oppure, più semplicemente, per quei suoi progetti che “avevano saputo portare l’idea di modernità europea negli Stati Uniti”. Trasformandola, ma anche declinandola, in tutti i modi possibili e costruibili. D’altra parte, Johnson aveva iniziato la propria attività di progettista (dopo la laurea ad Harvard) al termine di un viaggio “di formazione” nel Vecchio Continente, viaggio che aveva in qualche modo finito per scatenare quella sua passione (Roma rimarrà per lui, tra l’altro, “la città più bella del mondo”). Sulle orme di Le Corbusier, di Gropius, del minimalismo di van der Rohe, di Breuer ma anche di Speer (cosa che gli sarà più volte rimproverata). Johnson intraprenderà definitivamente la via dell’architettura costruita soltanto negli anni Quaranta dopo essere stato direttore del Dipartimento di Architettura del Moma di New York per il quale organizzerà (nel 1932) quella mostra dedicata all’International Style che aprirà la strada al modello europeo. Un modello che, più tardi, lo stesso Johnson “contribuirà a mettere definitivamente in crisi”, con uno dei suoi edifici più celebri: il grattacielo dell’AT&T a New York (ora di proprietà della Sony) con i suoi timpani da novanta piedi che sarebbero diventati veri e propri simboli del movimento postmoderno (anche se per i critici rimarranno “più adatti per un mobile o per un soprammobile che non per un palazzo”). L’acido Philip (che nel 1979 verrà insignito del Pritzker, l’Oscar dell’architettura) non si scomporrà comunque mai davanti alle critiche, spesso accese, che caratterizzeranno ogni suo lavoro. Ma anzi, spesso le provocherà. Dicendo (ad esempio) che l’architettura più che di “esterni”, era fatta di “organizzazione degli spazi interni”. Oppure che il suo sogno era quello “di costruire la più grande stanza del mondo, sia che si trattasse di un teatro, di una cattedrale o di un monumento” (ma “nessuno me lo ha mai chiesto”, si lamentava). Quella di respingere gli attacchi era una virtù che Philip aveva abilmente coltivato grazie alla sua costante frequentazione dei salotti newyorchesi dove qualcuno lo aveva definito persino “una prostituta” per quel suo essersi spesso compromesso con i grandi costruttori. Un compromesso che Johnson spiegava così: “È l’unico modo per veder realizzate le proprie opere”. La sua vita è stata così costellata (per almeno cinquant’anni) da grandi opere, forse nate in virtù di scelte più da concreto uomo d’affari che non da idealista. Come la Sheldon Art Gallery, il Lincoln State Theatre, uno degli edifici del Moma, l’ampliamento della Biblioteca di Boston, l’Art Center di Minneapolis o come la torre di vetro per la Republic Bank di San Francisco. Anche se forse piace ricordarlo per quello che è stato definito il più bel grattacielo d’America, il Seagram Building di Manhattan, dove aveva collaborato (per gli interni) con uno dei suoi maestri, Mies. Un edificio fatto di cristallo e di acciaio, pieno di riflessi e di luci, come la sua casa di Canaan. [...]» (Stefano Bucci, “Corriere della Sera” 27/1/2005).