Varie, 27 gennaio 2005
Tags : Mahsweta Devi
DEVI Mahsweta Dacca (Bangladesh) 14 gennaio 1926. Scrittrice • «[...] in India [...] è una celebrità venerata e ha vinto tra l’altro il premio Magsaysay, una specie di premio Nobel dell’Asia, mentre da noi [
DEVI Mahsweta Dacca (Bangladesh) 14 gennaio 1926. Scrittrice • «[...] in India [...] è una celebrità venerata e ha vinto tra l’altro il premio Magsaysay, una specie di premio Nobel dell’Asia, mentre da noi [...] è quasi sconosciuta, se non per suoi accaniti esegeti come gli studiosi Italo Spinelli e Anna Nadotti; è stata lei a convincere l’Einaudi a non considerare una follia la traduzione dal bengalese e uno spreco la pubblicazione di un timido libricino composto da sette racconti scritti tra il 1970 e il 1990, uscito [...] col titolo La preda. Un solo altro racconto, ”La cattura”, era già stato edito da Theoria nel ”96 [...] e in un volumetto intitolato India Segreta, del ”99, La Tartaruga aveva inserito tra diciotto racconti di donne anche uno della Devi, lo stesso, durissimo, che ritroviamo in La preda. [...] ”Erano gli anni ”80, molto tempo fa ma poi non tanto, nella regione di Palamau nell’India Occidentale, una regione molto povera, popolata da intoccabili, emarginati, e soprattutto adivasi, cioè aborigeni che occupavano le terre prima dell’arrivo degli altri popoli conquistatori che gliele portarono via. C’era un sole insopportabile, e un vecchio sciancato trascinava un carro pesantissimo con una fatica sovrumana. Chiedo: ”Perché quell’uomo deve lavorare come una bestia da soma?’. E il proprietario del carro, serafico, risponde: ”Per salvare il mio manzo, che vale almeno 2.000 rupie e sotto il sole creperebbe. Invece la vita di quell´uomo non vale niente, è il mio lavoratore vincolato’. Lavoratori vincolati erano, purtroppo sono, quelli che indebitandosi col padrone per ottenere cibo, ne diventavano proprietà, passando il debito anche ai discendenti, per sempre”. Nel racconto Il sale, le cose vanno così. Nel villaggio arrivano i giovani attivisti e spiegano al padrone che il betbegari, la schiavitù per debiti, è diventata illegale, che i contadini vanno pagati. ”Bene”, dice il padrone, e per vendetta, lui che possiede anche tutti gli spacci, fa scomparire il sale. Senza sale non si ha la forza per lavorare: inizia qui una magnifica lotta fatta di astuzia, di appostamenti, di fughe, tra i contadini a caccia del sale e gli intelligenti elefanti che vogliono proteggere il saled che gli viene dato dalle guardie forestali. Vinceranno naturalmente l’elefante solitario ed il padrone. Dice la signora: ”Io vedo continuamente, con i miei occhi, la brutalità del sistema esistente, quello che separa totalmente l’India che progredisce e che raggiunge il benessere da quel quarto di miliardo dei suoi abitanti che resta escluso da tutto, abbandonato e ignorato. I miei racconti nascono dalla cronaca vera, dagli orrori cui assisto, e che mi hanno fatto entrare in gruppi di azione e difesa come quello per i diritti delle tribù nomadi declassificate”. Qui i racconti di Devy si fanno più spaventosi. Nel 1871 gli inglesi classificarono come criminali circa 250 antiche tribù nomadi che vivevano nella foresta, fuori da ogni casta, istituendo un Criminal Act che bollava come pericolosi anche i neonati. Dopo l’indipendenza le tribù sono state declassificate, ma solo formalmente. Così gli arresti, le torture, gli assassini senza ragione da parte di una polizia particolarmente feroce, di un Sabar o di un Lohdas, sono continuati. Devi ha lottato per restituire giustizia a questi innocenti, i corpi alle loro famiglie, e ne ha scritto racconti freddi, quasi ironici, semplici e strazianti. ”La mia esperienza mi fa essere perpetuamente arrabbiata, ci sono sfruttatori e forme di sfruttamento imperdonabili. E dal momento che io credo nella collera, in una violenza giustificata, strappo la maschera all’India progettata dal governo, per denunciarne la brutalità”. Una delle passioni di Mahasweta Devi è raccogliere le parole delle molte lingue e dei tanti dialetti indiani, prendere nota delle tradizioni che diventano racconti. Come la storia dei dombasi, che sposano la bambina primogenita al dio Venkateshwar Shiva. Quindi i famigliari maschi costruiscono per lei una capanna vicino a casa dove deve prostituirsi apertamente, consegnando tutti i guadagni ai genitori. Il villaggio la onora come sposa di Shiva. Quando non può più vendersi, le procurano una capanna lontano e sarà libera di fare quel che vuole. La signora Devi è nata nel 1926 a Dacca oggi Bangladesh, in una famiglia hindu ma laica, di casta alta, figlia di un famoso poeta, Manish Ghatak, uno zio celebre regista, Ritwik Ghatak: laureata in letteratura inglese, si è sposata due volte e due volte ha divorziato, ha un solo figlio, scrittore. Vive a Calcutta, viaggia instancabilmente tra adivasi, tribali, intoccabili, dirige un giornale in cui i senza voce possono esprimere richieste e desideri. Ha fatto parte da ragazza dei giovani comunisti, ha assistito alle rivolte dei braccianti senza terra e degli studenti degli anni Sessanta e Settanta, ha trasformato ogni esperienza in romanzi, racconti, articoli, opere teatrali, libri per bambini. Molti film si sono ispirati alle sue opere, importante La madre del numero 1084, diretto da Govind Nihalani. Nelle sue storie gli uomini sono eroi fragili destinati alla sconfitta, le donne delle erinni invincibili, ragazze che umiliano il capo della polizia mostrando il loro corpo nudo e martoriato dalla violenza, belle che non vogliono sottomettersi al desiderio del prepotente e, poiché il loro no non conta, lo fanno fuori a colpi di macete. ”Scrivo delle donne perché sono recluse, emarginate, punite. Scrivo di e con gli adivasi. Con Nehru e dopo di lui ci è stata imposta una certa versione della nostra storia alla quale dobbiamo ribellarci. Bisogna avere il coraggio di rileggere, di reinterpretare ogni cosa, il coraggio di andare alla storia non scritta. compito della letteratura dire quale è stata in realtà la storia, soprattutto la storia delle donne. Gli storici dovrebbero leggere molta letteratura per dare forza alle loro argomentazioni”. Mahasweta Devi, piccola, anziana, forte, scura, serena e impaziente, storici e letterati, qui, se li mangia in un boccone» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 28/1/2005) • «Ha lottato per oltre mezzo secolo in difesa dei contadini sfruttati e delle comunità tribali emarginate del Bengala, ha scritto centinaia di romanzi, pièces teatrali, racconti e saggi in cui ha svelato il volto nascosto dell’India, ha usato la letteratura per denunciare la condizione drammatica di quelli che nel suo Paese sono senza casta e senza diritti. Abbastanza per poter essere considerata ”un maestro del nostro tempo”. [...] insegnante, giornalista e scrittrice indiana formatasi alla scuola di Shantiniken - quella fondata dal premio Nobel Rabindranath Tagore, la stessa da cui provengono personalità come l’economista Amartya Sen e il regista Satyajit Ray [...] la sua battaglia ”in difesa degli oppressi, degli sfruttati, degli emarginati del suo Bengala, gli Adivasi, ossia gli abitanti originari” [...] Nata nel 1926 a Dacca (nell’attuale Bangladesh), in una famiglia di intellettuali impegnati, da giovane si trasferì con i genitori in India, nel Bengala occidentale, e presto divenne membro del Granatya, un gruppo che cercava di portare il teatro politico e sociale nei villaggi rurali. Già da allora, e già dagli anni dell’Università che la portarono a conseguire il master in Letteratura inglese a Calcutta, era chiaro come la scrittura, nella sua vita, sarebbe sempre stata intrecciata con l’attivismo sociale. Un matrimonio evidente fin dal primo romanzo (Jhansir Rani, del 1956), ambientato nel periodo coloniale britannico, così come numerose delle opere scritte negli anni Sessanta, influenzate dal movimento militante Naxalite, originato dalla rivolta dei contadini senza terra contro i latifondisti e gli usurai. Fu la prima volta - raccontò la stessa Devi in quel periodo - che la giovane giornalista e lettrice di Inglese all’Università di Calcutta (fino al 1984) si sentì ”stimolata e obbligata a documentare”. E così la testimonianza - fatta di narrazioni iconiche, movimentate, costruite con la forza e i colori della lingua bengali e di una varietà di dialetti - trovò voce in una serie di opere che varranno a Mahasweta ”Didi” (’sorella maggiore” dei suoi poveri) il premio Jnanpath, il più importante riconoscimento letterario indiano, ottenuto nel 1995, e, l’anno seguente, il Magsaysay, equivalente asiatico del Nobel. Due premi di grande valore, anche economico, donati alle stesse comunità tribali sempre difese. I romanzi, i saggi, i testi teatrali di questa scrittrice dal forte carisma - in italiano sono stati tradotti La cattura, (Theoria, 1996), India segreta (La Tartaruga, 2003) e la raccolta di racconti La preda (Einaudi, 2004) - rispecchiano tutti l’idea dell’autrice sul ruolo della letteratura all’interno di una comunità. ”Penso che uno scrittore creativo dovrebbe avere una coscienza sociale”, ha dichiarato. ”Ho un dovere verso la società, devo essere responsabile verso me stessa”. Non è strano, dunque, che i libri di Mahasweta ”Didi”, dove il potere meschino e vile è messo a nudo e sbeffeggiato, non siano stati scritti ”per far piacere al lettore” (per usare le parole della stessa autrice), ma al contrario per colpire allo stomaco un pubblico che accetta di ignorare una realtà inaccettabile. ”Dopo aver letto i miei lavori [...] il lettore dovrebbe affrontare la verità dei fatti, e vergognarsi della vera faccia dell’India”» (Chiara Zappa, ”Avvenire” 26/1/2005).