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 2005  gennaio 26 Mercoledì calendario

FO Luciano Milano 2 gennaio 1915, Milano 25 gennaio 2005. Editore. Dopo aver lavorato a lungo alla casa editrice Einaudi, dove fu direttore editoriale, nel 1962 fondò, con Roberto Olivetti e Bobi Bazlen, l’Adelphi

FO Luciano Milano 2 gennaio 1915, Milano 25 gennaio 2005. Editore. Dopo aver lavorato a lungo alla casa editrice Einaudi, dove fu direttore editoriale, nel 1962 fondò, con Roberto Olivetti e Bobi Bazlen, l’Adelphi. «’Fondai l’Adelphi, con i consigli di Bobi Bazlen, per rompere la monotonia dell’ideologismo editoriale di sinistra, per scegliere autori che uscissero fuori dai binari codificati di una visione del mondo esosa in senso deteriore. Qui pubblichiamo i libri che più ci piacciono, solo quelli, con rischi e soddisfazioni”. A dieci anni esatti dalla nascita della casa editrice, rispondendo alle domande di Enzo Siciliano per ”La Stampa”, Luciano Foà spiegava con lucida sintesi scopi e ragione dell’impresa culturale cui aveva dato inizio. Era il 1972, Foà aveva 57 anni, da circa quarant’anni lavorava nell’editoria. Avendo chiaro, quasi fin dai suoi inizi, il progetto di pubblicare libri e autori al di fuori degli steccati ideologici della cultura italiana, delle sue chiusure parrocchiali e provinciali. Da qui, in germe, l’idea di un catalogo che avrebbe fatto scoprire o riscoprire i grandi scrittori della crisi europea, da Nietzsche ai mitteleuropei (Hesse, Joseph Roth, Robert Walser, Lernet Holenia), la spiritualità orientale, la mitologia classica e non, Nabokov, Simenon, autori di destra (Juenger), hippies (Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta), surrealisti (Daumal), grandi viaggiatori come Chatwin. Aveva cominciato nel ’33, a Milano, per l’Agenzia Letteraria Internazionale del padre Augusto, che traduceva romanzi stranieri e li vendeva ai quotidiani per la serializzazione in feuilleton. Luciano traduceva dal francese. L’incontro con Bazlen avvenne nel ’37, Foà pensava di fondare una rivista aperta ai più importanti autori stranieri e chiese consiglio al coltissimo triestino, amico di Montale, Saba, Debenedetti, particolarmente versato nella letteratura germanica. Bazlen lo dissuase dal proposito (le autorità fasciste ne avrebbero impedito l’uscita, disse); ma quella era la nascita di una grande amicizia, tanto che, l’anno dopo, ormai entrate in vigore le leggi razziali, fu il più anziano compagno a insistere perché Foà si battezzasse mettendosi al riparo da persecuzioni. Curioso di tutto quello che in letteratura avveniva fuori d’Italia (lesse anche gli americani, Caldwell Steinbeck Hemingway ai tempi delle traduzioni di Vittorini), Foà nel 1941 collabora con Adriano Olivetti che sta preparando una casa editrice per quando il paese si fosse liberato dal fascismo. Sognavano, lui e il giovane Foà, di ”diffondere in Italia tutto quello che, per via del crocianesimo o del fascismo, era stato fino a quel momento tenuto fuori dai confini”. L’8 settembre del ’43 e la fuga in Svizzera con il padre Augusto interrompono il progetto. Al ritorno, nel ’45, i programmi di Olivetti e della sua Comunità non gli piacciono più. Dopo un periodo di lavoro, nuovamente nell’Ali, ecco il passo decisivo: Torino, la casa editrice Einaudi, dove Foà viene assunto come segretario generale. Il periodo einaudiano dura dieci anni, dal 1951 al 1961; in questi anni si consuma anche la sua militanza politica: iscritto al Pci nel ’47, ne esce nel ’56 con la crisi di Ungheria. Anni dopo avrebbe confessato di non essere rimasto distante dalle ”posizioni politiche del Pci” ma di non aver mai condiviso ”la filosofia o la metafisica” del partito. La ”lacerazione” con Giulio Einaudi (fra l’altro erano nati nello stesso giorno dello stesso mese: 2 gennaio, 1912 Einaudi, 1915 Foà) si consuma nel nome di Nietzsche. Foà, consigliato da Bazlen, convince Einaudi a pubblicare tutto Nietzsche nei Millenni, a cura di Giorgio Colli. Ma dagli archivi di Weimar spunta una mole imponente di inediti: Colli preme per un’edizione critica, integrale. Einaudi si spaventa per l’imponenza e il costo. Alla fine, il drastico giudizio negativo dello storico Delio Cantimori chiude la questione. E accelera l’addio di Foà a Torino. Nasce così nel ’62 l’Adelphi (il simbolo delle due figure stilizzate è un graffito su un bronzo cinese arcaico), di Bobi Bazlen e Luciano Foà, con i capitali del figlio di Adriano Olivetti, Roberto. I primi quattro volumi escono l’anno dopo, e sono il Robinson Crusoe di Defoe, le opere di Buechner, le Novelle di Gottfried Keller e Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo. Intanto Bazlen presenta a Foà un giovane collaboratore destinato a un grande avvenire: è Roberto Calasso, vive a Roma, ma nel 1967 (due anni dopo la morte di Bazlen) sale a Milano e negli anni diventerà direttore editoriale e autore di punta della casa editrice. Difficoltà, negli anni, non sono mancate. Già a metà dei ’60 la crisi economica fa ritirare Olivetti, ma l’Adelphi è aiutata da Alberto Zevi (e da Giulia Devoto Falck e Giovanni Pirelli). Gli anni ’70, finalmente, segnano l’avvio delle fortune economiche dell’impresa culturale, i cui bestseller si chiamano Roth (La leggenda del santo bevitore ), Hesse (Siddharta) e Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere). Il marchio Adelphi diventa garanzia di qualità, in grado di imporre libri e autori difficili. Seguiranno, è vero, ancora alti e bassi, come quando il 48 per cento della proprietà sarà rilevato dalla Rcs. Ma l’indipendenza di scelte e criteri resterà intatta. La crisi vera, in realtà, si ha nel 1994, con l’uscita di un libriccino del cattolico francese della III Repubblica Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza: additato da molti come opera antisemita e ignobile, scatena una durissima battaglia sulle pagine culturali italiane. Vedendo, per esempio, combattere aspramente Cesare Segre contro Roberto Calasso. Foà, in questo frangente, non si pronuncia. Persone a lui vicine dicono che era contrario alla pubblicazione di Bloy; che è dispiaciuto dell’immagine di destra che così sta ricadendo sull’Adelphi, che è addolorato dall’uscita di alcuni consulenti di valore. Però, serba il silenzio. In quel periodo, la malattia del figlio lo preoccupa moltissimo. Lui, il figlio, alla fine guarirà. Ma per Foà inizia un periodo di progressivo rallentamento di attività. Un lento, irreversibile distacco dalla sua creatura [...]» (Ranieri Polese, ”Corriere della Sera” 26/1/2005). «[...] gran signore dell’editoria. [...] ebreo per parte di padre [...] La sua vita si è confusa con la passione per i libri. Se era nel giusto Eugenio Garin nel gli editori ”eroi non celebrati dell’età moderna”, certamente Foà rientra di diritto in quella schiera. Come dispensatore di idee destinate a diventare libro, la sua è stata un’esperienza pressoché unica nel Novecento italiano. La funzione di Foà editore è stata tanto più efficace quanto meno clamorosa. Non esiste un marchio riconoscibile (una ”Foà editrice”, per dirlo con una formula) nella quale il suo nome campeggi. Ancora prima che nascesse la Adelphi - in gran parte sua creatura diretta - varie società italiane del settore lo hanno avuto tra i fondatori o i consulenti più ascoltati. Le sue curiosità culturali si affinarono in solidale complicità con Roberto Bazlen, l’intellettuale triestino conosciuto nel 1937. Mentre il talento imprenditoriale lo aveva assorbito in famiglia: suo padre Augusto, un ex correttore di bozze della torinese Pomba diventato letterato e traduttore, aveva fondato fin dal 1898 l’Ali, Agenzia letteraria internazionale, specializzata nella compravendita di diritti di traduzione. Nella gestione di quest’impresa, l’aiuto di Luciano fu decisiva: con il tempo l’impresa, assai attiva ed autorevole, diverrà proprietà di Erich Linder. Luciano, intanto, aveva conosciuto Adriano Olivetti. Tipici, nel senso della geniale svagatezza che distingueva il ”patron” di Ivrea, furono i loro primi approcci. ”Stanotte, Foà, ho sognato di lei”, gli disse Adriano. L’industriale cominciava a dar vita a un’attività editoriale su base artigiana, che si sarebbe evoluta poi, nel dopoguerra. Il mio amico Giorgio Soavi ricorda Foà ”seduto dietro un tavolo modesto” in quegli uffici di via dei Giardini, a Milano, dove si erano da poco - ed era il 1947 - stabilite le Edizioni di Comunità, maturate su quegli esordi. Sembrava, Foà, un modesto funzionario, ”era in realtà il superconsulente, il proconsole di Adriano nell’editoria. Anche Bobi Bazlen era della partita”. Dai libri di Comunità a quelli di Einaudi. [...] Nella caa editrice torinese egli svolse per dieci anni, dal ’51 al ’61, le funzioni di segretario generale. ”Con Luciano Foà mi sembrava di essere a cavallo”, avrebbe dichiarato Giulio Einaudi in un libro-intervista a cura di Severino Cesari ”finalmente ho uno che ha pratica di lavoro, intelligente, colto. Viene da Milano senza essere per l’efficientismo fine a sé stesso”. E altrove sottolinea l’importanza che Foà ebbe nel coltivare argomenti due temi importanti: il mito e l’antropologia. Infine, la Adelphi Edizioni. Un altro Olivetti, Roberto figlio di Adriano, mise i due terzi del capitale per la nuova impresa. Si cominciò, raccontava Foà, in quel giugno del ’62, con una segretaria, un contabile e un responsabile dell’ufficio tecnico. Un unico redattore, Piero Bertolucci, si occupava della parte redazionale. [...]» (Nello Ajello, ”la Repubblica” 26/1/2005). «[...] avrebbe potuto essere il saggio governatore di una delle Città invisibili di Calvino, invisibile egli stesso agli occhi dei suoi sudditi. Apparteneva alla categoria pressoché estinta degli uomini che preferiscono esprimersi nell’artigianato quotidiano, nella concretezza delle cose da fare, lavorando di fino sul dettaglio con scrupolo maniacale. Nessun presenzialismo, rarissime interviste. Solo gli addetti ai lavori conoscevano la vastità della sua cultura a tutto campo, mitteleuropea quando di quel che accadeva a nord delle Alpi nessuno sapeva niente. Se editore è chi sa guardare lontano, oltre il breve ciclo delle stagioni e delle mode, dei gusti del mercato, Foà ha sempre precorso i tempi con il tratto del grand seigneur che non ama esibire quello che fa. La rare volte che si rassegnò a parlare di sé, preferiva ricordare gli incontri con i personaggi alquanto straordinari che aveva conosciuto, con gli amici con cui aveva lavorato e discusso. Maestro di understatement, ha giocato d’anticipo, fondando l’Adelphi nel pieno della leadership einaudiana, navigando controcorrente, affrontando con serenità gli anni difficili di un decollo su cui pesava l’anatema dell’irrazionalismo. Era figlio d’arte, Luciano. Suo padre lavorava come correttore di bozze da Pomba, la futura Utet, e si vantava d’aver corretto le bozze dei libri di Luigi Einaudi. La sera studiava lingue e frequentava un piccolo cenacolo di amici letterati. Cominciò a tradurre romanzi per l’appendice che si usava nei giornali di allora, e poiché non esistevano agenzie letterarie, sull’esempio inglese decise di aprirne una. La chiamò Agenzia letteraria internazionale. Era il 1898. Comperava diritti all’estero, traduceva personalmente la sera, rivendeva i testi a una piccola catena di giornali. Nel 1918 decise di ampliare il lavoro dell’agenzia vendendo i diritti di autori come Woodehouse e Huxley. Luciano cominciò a lavorare con il padre nel 1933, l’anno in cui debuttarono la ”Medusa” e i ”gialli” Mondadori. Il ragazzo Foà faceva pacchi e sbrigava faccende, ma si divertiva anche a fare lo scout, a suggerire autori e titoli. Il colpo più vistoso lo mise a segno vendendo a Mondadori Via col vento, che nessuno voleva perché troppo lungo. Risale a quegli anni un incontro decisivo non solo per lui, ma per il decollo della migliore editoria italiana del dopoguerra: quello con Roberto ”Bobi” Bazlen. Era il 1937, Luciano voleva fare un periodico che informasse i lettori sui libri stranieri, un po’ come il ”Times Literary Supplement”. Amici comuni lo misero in contatto con Bazlen, allora consulente di Frassinelli perché amico di Franco Antonicelli, e amico di Adriano Olivetti, per il quale scriveva testi pubblicitari. Il progetto non partì (figurarsi se il fascismo avrebbe permesso una cosa del genere, disse Bazlen realisticamente), ma i due divennero grandi amici. Nel 1942 Olivetti e Bazlen volevano mettere in piedi una casa editrice (le future Edizioni di Comunità) che, nella prospettiva non lontana di una caduta del fascismo, ricuperasse gli storici ritardi della cultura italiana e rimuovesse l’ipoteca dell’idealismo. Si parlava di tradurre Freud e la psicoanalisi, autori come Jarry, Daumal, Artaud, Hofmannsthal. A Luciano fu proposto di organizzare la nuova casa. Gli fu presentato Olivetti, e lui restò incantato dal suo entusiasmo e dal suo charme. Con i bombardamenti del ’42 la nuova casa fu portata da Milano e Ivrea, in un quartiere popolare, di fronte alla fabbrica. La vicinanza di Adriano fu importante, ricordava Foà. Accelerò la sua maturazione politica e ideologica, lo avvicinò a Maritain e Mounier, gli fece vedere con chiarezza l’astrattezza di certo antifascismo e la complessità del personaggio Olivetti, agitato da spinte contrastanti: senso del potere e senso della giustizia, fede e razionalità, idealismo e machiavellismo... Al leggendario albergo Dora, covo degli olivettiani, arrivano nuovi personaggi, tra cui Cesare Musatti; viene assunto il giovane Erich Linder per rivedere traduzioni. Foà viene mandato in Svizzera a trovare Jung (’un gigante dagli occhi azzurri, ridanciano, simpaticissimo”), ma scopre che qualcuno lo ha preceduto: un redattore di Einaudi che si chiama Cesare Pavese. A questo punto la storia della piccola casa si incrocia con le vicende frenetiche del ’43 e gli intrighi politici di Adriano, tra contatti in Svizzera con agenti americani e trappole del controspionaggio italiano. Quando Foà torna in Italia dopo la Liberazione, molti rapporti si sono interrotti, la ricucitura è difficile. All’Agenzia adesso c’è Erich Linder, che di lì a qualche anno la rileverà. Intanto a Milano Foà conosce Pavese, tramite Bianca Garufi (’Quei due si mettevano a parlare tra loro di mito, fittamente, per ore. Non ci capivo niente”). E Pavese porta Foà in Via Biancamano, come segretario generale. ”Con Einaudi - ricordava Foà - con Bobbio, Boringhieri, Ponchiroli, Lucentini, Calvino c’era un forte rapporto di vita comune anche fuori dell’ufficio. Passeggiate, discussioni, case delle vacanze che ci scambiavamo”. Diceva di legare un po’ meno con Vittorini, in cui gli pareva di avvertire un ”fondo di isterismo un po’ femminile”. Malgrado le difficoltà e la cronica penuria di soldi, furono anni ”assolutamente felici”. Il ruolo del segretario generale nello Struzzo degli anni ’50 è stato fondamentale, e attende ancora di essere studiato e valorizzato come merita. Mimetizzato nel gruppo, Foà tirava le fila, suggeriva, organizzava. Tra i suoi molti meriti, l’avere insistito per la pubblicazione del Diario di Anna Frank, e per la ripresa di Se questo è un uomo di Primo Levi, già bocciato da Pavese nel 1947. Foà tiene anche i contatti con il prezioso, mercuriale Bazlen, cui si deve tra l’altro la proposta di Musil. Diceva che di Bazlen Einaudi aveva quasi paura: ”Quando lui arrivava a Torino, si rintanava nel suo studio. Lo considerava una specie di mago, uno che sapeva leggere in fondo all’anima”. Nel 1961 Foà torna a Milano. Per motivi famigliari, per dissensi con Einaudi sulle strategie di lungo periodo, e per la ormai leggendaria questione dell’edizione critica delle Opere di Nietzsche, da condurre sulle 30.000 pagine di manoscritti conservati a Weimar. Era una questione di costi ed energie, e poi c’era il veto di Cantimori, che non voleva il filosofo accanto a Gramsci e Salvemini. Proprio Nietzsche funge da innesco per la nuova impresa dell’Adelphi, con cui concorrono anche Roberto Olivetti, figlio di Adriano, e Alberto Zevi. Il progetto prevedeva una collana di classici assenti o mal tradotti, su quella che poi è diventata la collana ammiraglia della casa, ”Biblioteca”, tipicamente bazleniana, e su una serie di saggi. I primi titoli escono nel 1963: il Crusoe di Defoe, il primo tomo delle novelle di Keller, le opere di Büchner, Fede e bellezza di Tommaseo. Anche se arrivano i primi consistenti successi (Konrad Lorenz, l’autobiografia di Alce Nero) bisogna attendere un decennio perché un progetto tanto rischioso e controcorrente raggiunga il pareggio di bilancio. In ogni caso Foà non si sposta di un millimetro. Intanto nel 1967 c’è stato un arrivo importante, il giovane studioso romano Roberto Calasso, che il solito Bazlen gli aveva presentato nel 1962. Quella che diventerà una fruttuosa diarchia sembra inverare l’intuizione profetica del marchio della casa, due figure stilizzate dell’antica Cina, complementari e fraterne. Siamo ormai ad un passo dal glamour che da allora accompagnerà la sigla Adelphi nel favore di lettori che si sentono parte di un club alquanto esclusivo. Amico tenerissimo, nonno affettuoso, Foà non se ne compiace più che tanto. Il momento più bello della sua giornata di lavoro è quando può chiudersi in studio e controllare bozze, rivedere traduzioni. Perché ogni libro è come un orologio, e alla perfezione non c’è mai fine. Ma nessuno come Luciano Foà, governatore appartato e silenzioso di favolosi Orienti librari, c’è andato tanto vicino» (Ernesto Ferrero, ”La Stampa” 26/1/2005).