Varie, 25 gennaio 2005
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Lombardo Agostino
• Messina 6 marzo 1927, Roma 24 gennaio 2005. Anglista. Americanista. Professore emerito alla Sapienza, accademico dei Lincei, intellettuale del Pci. Fra i numerosi libri, Lettura del Macbeth (Premio Bellonci), La grande conchiglia (sulla Tempesta), L’eroe tragico moderno, puntuali edizioni dei testi teatrali, studi critici su Henry James, Eduardo, da Napoli al mondo, dedicato al suo amico Eduardo De Filippo, al quale aprì le porte dell’università. «[...] era il più giovane dei quattro allievi prediletti di Mario Praz, gli altri tre essendo Gabriele Baldini, Vittorio Gabrieli e Giorgio Melchiori. Quando lasciò l’insegnamento per raggiunti limiti di età, correva l’anno 1966, il Maestro fece in modo che alla sua cattedra venisse chiamato proprio Lombardo, a costo di ferire l’orgoglio di Baldini, che era più anziano di Lombardo e che aspirava a venirci lui. Ma Praz era un uomo pragmatico: il suo peraltro amatissimo Gabriele era già a Roma, solidamente insediato al Magistero, e anche Gabrieli e Melchiori erano stabilizzati in Università prestigiose. Inoltre, e lì vide giusto, Lombardo era l’uomo che ci voleva per far fronte all’enorme e rapido sviluppo dell’anglistica universitaria. Ai tempi di Praz [...] l’ateneo romano (non aveva ancora rispolverato l’antico nome “La Sapienza”) aveva una sola cattedra di inglese, appunto, la sua, con l’apporto di un solo assistente; e nessuno insegnava la lingua. Oggi a Roma ci sono tre Università statali più diverse altre, con decine di ordinari più legioni di ricercatori, borsisti, lettori di madrelingua eccetera. Agostino Lombardo si trovò all’inizio di tale esplosione, e solo un uomo della sua energia, come Praz capì lucidamente, avrebbe potuto controllarla. Curioso personaggio, questo messinese dagli occhi chiari che aveva studiato a Roma. Benché più giovane [...] dei tre amici-colleghi-allievi prediletti di Praz, era per costituzione il più professorale, nel senso antico. Se fosse vissuto qualche decennio prima sarebbe stato un classico barone di altri tempi, solenne, accentratore, moralista, permaloso, stratega; del barone di una volta gli rimaneva qualche tratto, per esempio amava circondarsi di discepoli il cui destino voleva controllare totalmente e da cui esigeva una dedizione che ricompensava difendendoli nei concorsi da chiunque osasse presentarsi contro di loro. Ma per altri e assai più importanti versi fu, invece, un uomo dei tempi nuovi. Fu, innanzitutto, un docente che mise sempre al primo posto la comunicazione con gli studenti. Le sue lezioni erano brillanti, ma soprattutto erano cristalline.[...] numi come Natalino Sapegno o il surricordato Praz facevano lezione limitandosi a leggere a voce alta pagine di loro libri, e nessuno osava interromperli rivolgendo magari loro qualche domanda; la loro presenza era monumentale. Invece le lezioni di Lombardo, che cominciò come incaricato di letteratura angloamericana, erano stimolanti in sé. Questa sarebbe rimasta una costante di tutta la sua carriera: apriva ai ragazzi finestre su mondi appassionanti. [...] oltre a essere un insegnante di prodigiosa energia, Lombardo fu uno scrittore inesauribile, che percorse quasi tutto il campo di una disciplina sterminata. I suoi contributi non si contano, sono decine e decine di saggi poi raccolti in parecchi libri. Al centro dei suoi interessi fu sempre più cospicuamente l’età elisabettiana, e Shakespeare in particolare. Anche qui superando una formazione che privilegiava la lettura (quando era studente lui, il teatro si studiava solo come letteratura e non esistevano cattedre di spettacolo), passò dall’indagine approfondita del testo al rapporto con la sua rappresentazione. Del suo impegno di studioso fu testimonianza il densissimo e premiatissimo commento a ogni sfumatura di Macbeth. Alla radice della sua seconda fase, quella per così dire attiva, ci fu l’incontro fondamentale con Giorgio Strehler, di cui aveva apprezzato e discusso il Re Lear, e col quale collaborò alla Tempesta, dopodiché Lombardo diventò il punto di riferimento di tutte le attività del Piccolo Teatro di Milano in materia di elisabettiani. Anche prima di quella Tempesta Lombardo aveva tradotto teatro, ma il contatto col grande regista lo rese sensibile alle esigenze della parola parlabile. Ho già detto come da sempre la comunicazione fosse al primo posto nelle sue esigenze espressive: dopo Strehler, Lombardo diventò un traduttore di Shakespeare e non solo, limpido come nessun professore era mai stato, senza cessare di essere un traduttore colto, come nessun uomo di teatro era mai stato. In questa attività diede forse il meglio di sé, come dimostra la serie degli Shakespeare [...] che purtroppo ora non verrà più terminata. Shakespeare come consolazione, ha teorizzato l’autore di un libro [...] Lombardo lo sperimentò su se stesso. [...] direttore di collane editoriali, promotore di attività culturali, oratore eloquente, saggio settecentesco e un tantino eccentrico alla Samuel Johnson, un po’ come il suo grande amico Harold Bloom; e formidabile motore dell’anglistica italiana. Fu per qualche verso l’ultimo dei giganti che l’Università di una volta produsse» (Masolino D’Amico, “La Stampa” 25/1/2005). «[...] ha formato e incarnato l’anglistica e l’americanistica italiana della seconda metà del ’900. Nella prima ha continuato e ampliato le lezione del maestro della sua generazione, Mario Praz; la seconda l’ha in pratica avviata lui, nel secondo dopoguerra, facendola entrare nell’università e nel mondo culturale come autonomo oggetto di studio. È stato per decenni un maestro di entrambe, passando dall’una all’altra con quell’attenzione, quella passione e, verrebbe da dire, quell’accanimento che lo contraddistingueva in tutto: nelle amicizie e negli studi, nella pubblicistica e nella docenza, ma anche nelle molte possibilità editoriali che dava agli allievi. Ha creato una scuola di docenti agguerrita e innovatrice numerosissima, seguendone la formazione e sorvegliandone la crescita, ma lasciando a tutti libertà di indirizzi e sviluppi, proprio perché aveva capito — lui che si era formato in una università di pochi — l’articolazione di interessi e modi che si rendeva necessaria in una università di massa. In una vita dedicata indefessamente — fin troppo!, gli dicevamo alle volte — al lavoro e alla ricerca, la sua produzione scientifica è imponente, spazia dai grandi di Inghilterra e America ai “nuovi” dei Paesi “emergenti” di lingua inglese, cui pure nella vastità dei suoi interessi aveva prestato ascolto, curandone recentemente una serie di storie letterarie dai titoli suggestivi: Le orme di Prospero, Verso gli antipodi. [...] i suoi primi studi sulla poesia dell’estetismo inglese e su Keats, sul teatro preshakespeariano, del Medioevo e del Rinascimento, culminati nella Lettura del Macbeth , forse il suo titolo più diffuso e fortunato, a cui si affiancavano in quegli anni gli studi sul Realismo e simbolismo americano: un titolo e una formula che coglieva subito l’essenza contraddittoria e per questo feconda di una tradizione letteraria di cui avevamo solo idee confuse. A Shakespeare avrebbe poi gradualmente dedicato, col passare degli anni, le sue maggiori energie: non solo negli studi critici — alcuni, ultimamente, di agile e immediata funzionalità, come L’eroe tragico moderno (su Faust, Amleto, Otello), La grande conchiglia (su La tempesta) o Il fuoco e l’aria (su Antonio e Cleopatra) — ma imbarcandosi nell’impresa quasi titanica e “un po’ folle”, come lui stesso amava ripetere con il suo sorriso accattivante, un po’ come venato di timidezza e malinconia, di tradurne tutto il teatro: impresa che ha mancato di poco, ma nella quale ha profuso le sue maggiori energie, la conoscenza di tutti i segreti del testo e la profonda sensibilità che aveva della nostra lingua. Consapevole che Shakespeare era in primis uomo di teatro, o addirittura di metateatro, lo aveva coltivato anche per la rappresentazione scenica e in rapporto con grandi registi — Strehler, Squarzina, De Filippo e altri, dando loro e ricevendone ispirazione — a testimonianza di una presenza a tutto campo e incisiva nella cultura italiana. Infaticabile animatore di riviste — da “Studi americani”, che diresse per due decenni, a “Memoria di Shakespeare”, l’ultima sua nata — di convegni e di studi collettanei (se ne contano a dozzine, gli ultimi su poesia e metapoesia, l’immagine dello specchio o del mare, e via dicendo), di iniziative accademico- editoriali — come la “Piccola biblioteca shakespeariana” — rimase fedele a una sua visione posata e non trionfalistica o totalizzante della critica (Per una critica imperfetta, II edizione, 1992). Rifuggiva da mode e clamori, non condivideva i facili entusiasmi per questa o quella nuova corrente critica, sapendo essere incoraggiante ma anche severo con tutti, in primo luogo se stesso. Di lontana formazione crociana, aveva però incarnato anche l’impegno civile del letterato. La frase hawthorniana “un rapporto col mondo”, oltre che titolo di un suo libro, sembra indicare un suo anelito o aspirazione interiore, che poi magari le vicende esteriori rendono sempre più difficile e aleatorio. [...]» (Sergio Perosa, “Corriere della Sera” 25/1/2005).