Varie, 21 gennaio 2005
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Bitton Simone
• Rabat (Marocco) 3 gennaio 1955. Regista. Arrivò con la sua famiglia in Israele all’età di 11 anni. Nel 1976 si trasferì in Francia per studiare cinema all’Institut des Hautes Etudes Cinematographiques dove si è laureata nel 1981. Dalla Francia, suo paese d’adozione, ha viaggiato nel Mediterraneo filmando storie, culture e popoli del Nord Africa e del Medio Oriente. Nel 1990 ha creato la serie storica sulla Palestina Histoire d’une terre (rari materiali d’archivio per raccontare la Palestina dal XIX secolo ai giorni nostri). Per la tv ha prodotto documentari-ritratti di famosi musicisti egiziani: Oum Kalsoum, Mohamed Abdelwahab e Farid al-Atrache, del poeta palestinese Mahmoud Darwich, dello scomparso leader d’opposizione marocchino Mehdi Ben Bark e di Azmi Bishara, uno dei 12 membri palestinesi della Knesset, il parlamento israeliano. Nel 1999 ha girato l’Attentat, con le testimonianze dei parenti, israeliani e palestinesi, delle vittime degli attentati suicidi a Gerusalemme. Il Muro, suo primo film per grande schermo, è stato presentato al festival di Cannes 2004, alla Quinzaine des réalisateurs, ha vinto il Gran premio al festival di Pesaro, e ha ottenuto lo stesso riconoscimento al festival di Marsiglia e di Gerusalemme. Il film, vincitore anche al festival di Ramallah, è stato proiettato in anteprima a Ras Kubsa (Abu-Dis), proprio sul Muro. «Le prime immagini scorrono piano lungo il muro. Graffiti, scritte, voci fuori campo di bimbi: il muro serve a proteggerci, di là ci sono loro, gli arabi, i palestinesi, che quei bimbi un po’ ridendo dicono di riconoscere dalla lingua o dalla faccia. E però non sanno cosa significa, non sanno rispondere alla voce ferma (femminile, la stessa regista) dell’interlocutore che gli chiede quali siano queste differenze, cosa sigifica “la faccia”. Ridono ancora, scappano chiedendo di non riprenderli... [...] “Nel 1973 ho fatto il servizio militare. C’era la guerra, ho visto la morte e da allora sono stata pacifista per sempre” racconta di sé. Tre lingue, francese, ebraico, arabo, tre culture , un sentimento apolide che entra con forza nel suo cinema, in questo film rivendicazione appassionata del molteplice contro l’isolamento. Perché il muro che dà il titolo è la mostruosa barriera di cemento, filo spinato, telecamere di sorveglianza voluta da Sharon per difendere Israele. [...] Un ghetto a cielo aperto come dice uno dei personaggi, un amico della regista psichiatra intervistato in videoconferenza a Gaza da dove nessun palestinese può praticamente più muoversi - e in senso contrario nessuno può entrare. E dove come le tante altre zone frammentate e rinchiuse dal muro, qualsiasi banale gesto quotidiano diventa impresa impossibile. Nelle ultime scene del film, tra quei cumuli grigio-ferro, i passaggi silenziosi delle persone. Ci si arrampica, qualcuno ridendo dice all’obiettivo: “filma come siamo costretti a camminare”. Una donna anziana appoggia la mano al muro. Al di là scritte di negozi, un altro pezzo di città, forse amici, parenti, affetti. Il muro che traumatizza tutti [...] “Mi piace pensare al Muro come a un film che pacifica le gente, che crea un dialogo tra il pubblico. Negli incontri dopo le proiezioni le persone cominciano a parlare tra loro. Non volevo fare un film per i palestinesi o per gli israeliani o per gli stranieri. Sarebbe stato un film sbagliato perché visto che parla del muro deve rivolgersi a tutti. Uno spettatore non è una pagina bianca, abbiamo la nostra memoria storica che specie in Israele è molto pesante. C’è chi nel muro vede un’associazione coi recinti dei ghetti nella seconda guerra. Per me, soprattutto le ultime sequenze con la donna che si appoggia al muro, il riferimento più diretto è il muro del pianto. È un gesto che ho visto fare a mia madre tantissime volte quando ero ragazzina e l’accompagnavo alla preghiera. Così anche la musica che ho scelto per le ultime sequenze arriva da lì, è una musica che era nella mia testa. Forse un messicano farà un’altra associazione, o un cipriota ancora un’altra. È quanto per me significa dare allo spettatore un proprio spazio nel film. Il muro è un’idea molto diffusa nel nostro secolo. Tutto il pianeta è un insieme di muri che rifiutano e annullano il metissage, lo scambio. Dietro al muro si barricano i più forti che hanno paura dei più deboli, i potenti che vogliono tenere tutti gli altri fuori”. [...]» (“il manifesto” 20/1/2005).