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 2004  settembre 12 Domenica calendario

Il 1911 e l’Italia, guidata dal governo liberale di Giolitti, si accinge a invadere la Libia, una provincia dell’Impero Ottomano fino allora trascurata dall’Occidente

Il 1911 e l’Italia, guidata dal governo liberale di Giolitti, si accinge a invadere la Libia, una provincia dell’Impero Ottomano fino allora trascurata dall’Occidente. Il regime turco in effetti è mal tollerato dai libici che però hanno forme di autogoverno. In particolare la Senussia, confraternita islamica di carattere mistico fondata nel 1834, che realizza un ordinamento politico-amministrativo molto ben strutturato, specialmente in Cirenaica, dove costituisce un vero stato nello Stato con il chiaro obiettivo finale di conquistare l’autonomia dalla Mezzaluna. In questo contesto, gli italiani tentano da principio una «penetrazione pacifica», portata avanti per assoggettare economicamente la futura colonia, attraverso il Banco di Roma. Sono i modesti risultati ottenuti dall’istituto finanziario a fare maturare l’idea della soluzione militare. Così nel settembre 1911 viene inviato un’ultimatum al quale la Turchia risponde dichiarandosi pronta a accordare concessioni economiche e offrendo all’Italia, pur di evitare la guerra e la perdita dei territori, il protettorato sulla Libia. Ma nessun tipo di risposta è ormai in grado di dissuadere l’Italia, che respinge le proposte e dichiara la guerra. L’opinione pubblica, incoraggiata della poderosa propaganda nazionalista, è schierata a fianco del governo. Il movimento pacifista è diviso e gli ambienti cattolici non esitano a farsi portavoce della crociata contro gli infedeli. Solo Gaetano Salvemini scrive: «Ma sia il quando, sia il perché, sia il come dell’impresa libica non si spiegano, se non tenendo presenti l’incoltura, la leggerezza, la facile suggestionabilità, il fatuo pappagallismo delle classi dirigenti italiane». Mentre in Italia si discute, su Tripoli iniziano i bombardamenti e la popolazione organizza la resistenza. Al contrario, l’esercito italiano, che aveva sottovalutato la reazione libica, si dimostra impreparato, colto quasi di sorpresa dalla decisione di entrare in guerra. Nel trovarsi davanti i combattivi battaglioni di volontari, i nostri generali non esitano a parlare di tradimento arabo, definiscono la resistenza come un fenomeno di fanatismo religioso. Subito è chiaro che la auspicata guerra lampo sarà molto lunga. Si spera di recuperare la situazione con la durezza: si ordinano arresti e deportazioni e viene introdotta l’impiccagione anche per i reati non gravi. La brutalità è tale da suscitare l’indignazione della (fino a allora) distratta opinione pubblica internazionale. Si risponde diffondendo i numerosi memoriali testimonianti le atrocità commesse dagli arabi e corredati da fotografie raffiguranti corpi di soldati italiani straziati e mutilati, redatti e diffusi a giustificazione delle rappresaglie compiute, gli atti dei nostri soldati in terra libica macchiano le coscienze indelebilmente e fanno dilagare il malcontento. Al fronte i soldati, provati dalla guerra, dall’asprezza del clima e dai difficili fattori ambientali, cadono spesso nella disperazione e in alcuni casi arrivano a togliersi la vita. In patria, Giolitti inizia ben presto a ricevere lettere da parte di padri di soldati in cui gli si domanda: «Onorevole assassino, non siete ancora stanco di far scorrere su quelle terre africane il sangue dei nostri poveri figli? Non vedi che le tue mani grondano sangue proletario?». Nel 1912 i turchi si ritirano dall’Africa e nello stesso anno viene stipulato il trattato di Losanna che, lasciando al sultano la sola autorità religiosa, permette all’Italia di proclamare l’annessione di Tripolitania e Cirenaica. in questo preciso momento che inizia la vera guerra. Da una parte l’esercito italiano, dall’altra la popolazione indigena. Particolarmente agguerriti sono i nomadi dell’interno, guidati dalla Confraternita Senussita e decisi a difendere la libertà in nome dell’Islam.